Film

Jumanji, un gioco che vuol trasportar chi questo mondo vuol lasciar

Oddio, apprendo in questo istante che Jumanji ha vent’anni. VENTI. Gesùmmio la nostalgia. Come tutti i bambini anni ’90 figli della televisione e del capitalismo, ho sempre desiderato ardentemente possedere il gioco da tavola protagonista della pellicola. Ma non quelle taroccate plasticose che accontentavano i bambini morigerati e accomodanti, no, io volevo il GIOCO VERO… e lo voglio ancora.

Eddai su, che è sta merda, allora mi tengo il gioco dell’oca dei cinesi.

Qualche tempo fa, mentre riempivo a caso carrelli su Amazon, Asos e Zalando, sono capitata su Etsy. Ed è avvenuto il miracolo: hanno creato il vero Jumanji. Super dettagliato, inciso splendidamente, con autentico legno di pino, vernice, colata di resina e pure con i magneti, cazzo! Un artigiano pazzo e bravissimo di nome Steam Stailor ne ha fabbricati dieci pezzi.

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Il work in progress

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Una meraviglia!

Ero già pronta con in mano la carta di credito ed in testa le battute del film (da ripetere in modo solenne quando c’avrei giocato poi con mio fratello) quando il prezzo del gioco mi ha fatto tornare alla dura realtà di nullatenente che mi appartiene. Per 1200 euro voglio anche le scimmie, le zanzare giganti, il leone e Robin Williams che urla “la nostra speranza è finire la partita!”.

Ma da dove deriva tutto questo feticismo? Dal film chiaramente. Tratto da un racconto per ragazzi del 1981, il film Jumanji è ormai un cult intramontabile, che ha fatto incollare allo schermo milioni di spettatori grandi e piccoli. Intrattiene da matti: c’è azione, fantasia, comicità, sentimento. All’uscita fu enormemente applaudito per gli effetti speciali, che ora potranno fare un po’ sorridere, ma che secondo me anche oggi non sono affatto male se paragonati a certe brutture che circolano.

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UNA TRAMA COMPLESSA

La storia è geniale e tutt’altro che semplice: l’intreccio non è lineare, si affrontano ben quattro piani temporali che alla fine si risolvono in uno splendido ed inaspettato paradosso. Andiamo con ordine e procediamo dall’inizio: siamo nel 1869. A me i primi due minuti facevano davvero cagare in mano, cosa piuttosto ridicola visti gli orrori successivi. Due ragazzini seppelliscono una cassa misteriosa, ovviamente di notte, ovviamente in un bosco super inquietante (“Caleb cos’è questo rumore?” “Niente paura, è solo un branco di lupi”. Vabé, bella per te fraté).

Cento anni dopo, il ragazzino dodicenne Alan Parrish attraversa in bicicletta la città salutando tutti amabilmente, mancano solo i vecchietti con la grappa che giocano a tressette, che il regista decise di non mettere per motivi di contesto culturale anche se ci stavano da Dio.

Alan è il classico ragazzino benestante, sfigato, molto solo e preso di mira dai bulli (che nei film americani sono sempre più stronzi). Va a trovare il padre nella sua fabbrica,  il quale con il suo motto vagamente fascista “Un avversario prima o poi va affrontato” si rivela stronzo anche lui e costringe il figlio a darsi in pasto ai bulli. Dopo esser stato picchiato, Alan trova la famosa cassa seppellita cento anni prima. La apre e scopre il gioco in mezzo alla sabbia (adoravo questi tre secondi! WOOOOOOW).

Dopo un pesante litigio con il padre, Alan fa i bagagli per scappare di casa, ma quando è sul punto di fuggire suona a casa l’amica Sarah. Alan presenta a Sarah il gioco, che sin da subito si rivela essere magico e maledetto: accidentalmente sia Sarah che Alan tirano i dadi e, poiché “il gioco pensa” che abbiano giocato, Alan viene risucchiato dal tabellone intrappolato nella giungla mentre Sarah scappa via inseguita da pipistrelli africani.

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Passano ventisei anni. La casa dei Parrish è nel totale abbandono e degrado, così come il paese. Entra in scena Nora Sheperd con i nipoti orfani Judy (Kirsten Dunst, bambina all’epoca, già brava e carinissima) e Peter (Bradley Pierce). I due ragazzini scoprono il gioco e iniziano a giocare, o meglio: continuano la partita iniziata da Alan e Sarah ventisei anni prima. Grazie ad una giocata di Peter, Alan torna dalla giungla (eccolo qui in tutto il suo splendore… Robin Williams!). La partita deve concludersi, è il solo modo che avranno i nostri eroi per riportare tutto alla normalità. Dopo aver trovato Sarah (Bonnie Hunt), cresciuta e traumatizzata dalle conseguenze del gioco, il quartetto prosegue la partita. Dalla metà in poi il film diventa pura azione e meraviglia, e lo dice una che i film d’azione solitamente li ripugna.

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I TEMI AFFRONTATI 

Quante volte avreste voluto tornare indietro nel tempo per dire ad una persona “Scusami, ti voglio bene”? Quante volte vi pentite di essere troppo cattivi con i vostri genitori? Quante volte era ormai troppo tardi? Jumanji parla anche di questo. Il rapporto burrascoso tra Alan e il padre è uno degli aspetti più profondi del film, che pur rimanendo un prodotto accessibile a tutti sa raccontare bene i suoi personaggi ed i sentimenti che li caratterizzano.

E poi la solitudine. Quella di un bambino ricco, in una città dove tutti lo conoscono, ma che proprio le persone che dovrebbero conoscerlo e amarlo di più lo ignorano. Quella di un uomo nella giungla (non per forza dell’Africa nera!). Le metafore sono tante e prevedibili, ma non per questo prive di valore: particolarmente originale è quella del cacciatore Van Pelt, uno degli orrori che spuntano fuori dal gioco, interpretato dallo stesso attore del signor Parrish, poco riconoscibile dal trucco (ora credo che lo noterei, da piccola non c’avevo mai fatto caso con la botta perenne che avevo). Il padre/cacciatore che costringe il figlio/preda ad affrontare non solo la violenza del mondo, ma prima di tutto la SUA “violenza”. “Un avversario prima o poi va affrontato”… ma l’avversario più temibile e difficile da affrontare a volte non risulta essere proprio chi ci ama di più? 

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E’ un film che fa ridere e sorridere, che mai invecchierà, dove il lieto fine si percepisce dalla prima inquadratura e lo spettatore ne esce completamente soddisfatto e appagato. Jumanji è popolare, fresco, senza tanti fronzoli, con pochi silenzi di riflessione, che del resto mal si accorderebbero all’andamento ritmico estremamente dinamico e veloce.

E’ uno spettacolo di film, se un giorno avrò mai dei figli lo vedremo insieme e ci divertiremo un mondo. Andrò in mezzo ai pini, taglierò i tronchi e mi metterò ad intagliare il legno. La vernice già ce l’ho. Per la colata di resina vediamo. I magneti li rubo dal frigo. Ti farò il culo Steam Stailor, fosse l’ultima cosa che faccio, tieniti pure il tuo vile danaro.

Lucia Tiberini

Classe 1992. Dopo un'infanzia nella provincia di Perugia, dove trovo notti stellate e sagre del cinghiale, mi trasferisco a Bologna, dove trovo esami, vino e bonghi. Amo il mio ukulele (ma solo esteticamente: non so suonarlo), Dylan dog, gli arrosticini e non disdegno il cinema.
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