
Jungle Cruise: un viaggio nella giungla lungo un fiume di problemi
Percorso in battello con pessime freddure, due topi e un problema che potrebbe essere una cosa da nulla
Dopo film come la saga dei Pirati dei Caraibi, La casa dei fantasmi, Tomorrowland, The country bears – I Favolorsi, la Disney crea un nuovo film basato su un’attrazione di Disneyland e, anche stavolta, l’attrazione viene usata, molto liberamente, da sfondo per raccontare una storia originale.
”L’altro lato dell’acqua”
La Jungle Cruise è una delle attrazioni storiche del posto più felice della terra, attiva sin dal giorno della sua inaugurazione. La corsa consiste in un viaggio per battello che vi conduce per un percorso su fiume in mezzo alla Giungla. Inizialmente concepita da Walt a scopo educativo, l’attrazione assunse ben presto toni ironici, grotteschi e umoristici, con degli skipper che conducono il giro con battute e giochi di parole atroci e con degli animatronics che ricreano situazioni buffe, divertenti o macabre (ma sempre in stile Disney, come insegna la giostra dei Pirati dei Caraibi).
La biologa Lily Houghton (interpretata da Emily Blunt) e suo fratello McGregor partono alla ricerca di un’antico albero, i cui petali riescono a guarire qualsiasi malattia. Con l’aiuto di un capitano di battello davvero poco raccomandabile, interpretato da Dwayne Johnson, i due fratelli percorreranno il Rio delle Amazzoni. Nel corso del viaggio finiranno invischiati in un intrigo che affonda le sue radici nelle antiche battaglie per la supremazia coloniale dei conquistadores. E, come se non bastasse dovranno fare i conti con i pericoli dell’amazzonia, maledizioni native e con interessi legati alla Grande Guerra.
Nel corso della storia vedremo moltissime citazioni e strizzate d’occhio a film dello studio o alla stessa Jungle Cruise originale. Si va dalle battutacce degli skipper, messe in bocca al personaggio di Dwayne Johnson, a battute storiche, fino a riferimenti sottili, come la sequenza del giro turistico condotto dal protagonista, in cui si ricrea la corsa di Disneyland, in una versione più in piccolo e rudimentale, che include i personaggi meccanici e i vari momenti salienti degli skipper.
Prima di andare a vedere il film vi consigliamo, qualora siate provvisti di Disney+, di recuperare la puntata dedicata alla Jungle Cruise nella serie I segreti delle attrazioni Disney. Sarà interessante rintracciare i vari riferimenti alla corsa, una volta in sala.
Si comincia bene, ma…
Per molti versi il film parte anche con il piede giusto, con un riferimento nemmeno troppo sottile al cult Atlantis l’impero perduto, con quello che potrebbe sembrare, almeno nei primi minuti, una sorta di Milo Tatch che espone timidamente ad un gruppo di vecchi disinteressati una sua ricerca basata su leggende e antichi manufatti. Il tutto, tra l’altro, ambientato nel periodo della Grande Guerra (anche se Atlantis era ambientato alle porte del conflitto). Basterebbe questo a catturare l’attenzione e la benevolenza di uno squallido esponente della generazione Z come il sottoscritto.
Purtroppo non ci vorrà molto per capire che qui non c’è né Joss Whedon alla scrittura né il duo Wise-Trousdale alla regia (già “al timone”, per rimanere in tema, di corazzate disneyane quali La Bella e la Bestia o Il Gobbo di Notre Dame). E qui tocchiamo un tasto che potrebbe generare un problema per alcuni e una cosa da nulla per molti altri. Vediamo da che parte state.
Un problema per pochi, una cosa da nulla per molti altri
Vi pongo una domanda. Non vi sembra che i film dal vero a marchio Disney, quindi escludete i Marvel e Lucasfilm, siano molto simili tra loro? Non vi sembra come se il regista sia sempre lo stesso e lo stile sempre uniforme e piatto? Eppure spesso vengono chiamati registi di punta, di talento o comunque professionisti degni di nota (se escludiamo film come i due Malificent).
Per Aladdin abbiamo avuto Guy Ritchie (Sherlock Holmes, The Snatch), per Crudelia Craig Gillespie (Tonya), per Il ritorno di Mary Poppins Rob Marshall (Chicago, Nine), per Lo schiaccianoci e i quattro regni Joe Johnston (un buon tecnico, regista di cult quali Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi, Pagemaster, Rocketeer o Jumanji).
Perché le caratteristiche di questi registi stentano a mostrarsi?
Un capitano senza molto spazio di manovra?
Come “skipper” di Jungle Cruise abbiamo Jaume Collet-Serra, già regista per Zemeckis con La maschera di cera e regista di ottimi action come Unknown – Senza identità, Run all Night o thriller come L’uomo sul treno. Un professionista che ha dimostrato grande mano e padronanza dell’azione, e qui, senza dubbio, vediamo espresso abbastanza bene questo talento.
Ma il resto? Come mai ci sembra tutto già visto e simile ad altri film? Perché il lavoro delle grandissime maestranze Disney, che Collet-Serra sta guidando, non sembra incanalato in una visione unica che eviti di farlo sembrare simile a mille altri film (anche non-Disney, se consideriamo Indiana Jones, All’inseguimento della pietra verde, o il classico di Houston La regina d’Africa, a cui l’attrazione stessa s’ispirava)?
Perché questo Jungle Cruise non è il film di Jaume Collet-Serra. Questo è il film di una star, Dwayne Johnson, e di uno studio, la Walt Disney Pictures. E qui casca l’asino!
Perché la cosa in sé non sarebbe un problema, ma parliamo della Disney che fa film dal vero e quindi, ahimè, lo è.
Due Studi, due anime, due vite
Questo è il nostro tasto dolente e per comprenderlo bisogna tenere conto di due aspetti importanti: la mancanza di una guida per la divisione dei film dal vero e la separazione tra l’esperienza live action e quella d’animazione.
Questi punti sono stati evidenziati molto bene nel lavoro di Valerio Paccagnella, che con diverse sue recensioni Sputasentenze e il suo stupendo Disney Compendium, posti all’interno del più ampio progetto della Tana Del Sollazzo, porta avanti un meraviglioso lavoro divulgativo e d’informazione sul percorso storico-artistico degli studi di Animazione Disney e sulla filosofia della casa di Burbank.
(ndr. Per la cronaca, Paccagnella ha trovato, contrariamente a noi, delle ottime ed entusiastiche parole per questo Jungle Cruise. Qui il link al suo ultimo sputasentenze sul film.)
Senza Guida, senza storia…
L’elemento della guida, in questo caso da rintracciare nel ruolo del direttore creativo, non è assolutamente da sottovalutare. Uno studio può imporre il suo marchio, e rendere un film suo e non del regista che lo sta realizzando, basti vedere i vari esempi nella Hollywood classica. Ma allora, in questo caso, lo studio deve avere qualcuno di più di un semplice produttore alla sua guida.
Deve avere una figura in grado di portare avanti la produzione di progetti con dei tratti stilistici e con un’idea di Cinema ben precisa e solida. Grandi produttori sono stati, a conti fatti anche autori dei loro film e questo studio (in special modo il reparto animazione) ne è l’esempio perfetto. Perché Walt Elias Disney era, per molti versi, l’autore spirituale dei suoi film, per quanto essi avessero infine i tratti di chi era stato scelto per dirigerli.
Tornando al ruolo del direttore creativo, Pixar e Walt Disney Animation Studios, fino a poco tempo fa, hanno avuto John Lasseter (Toy Story, A Bug’s life), ora hanno, rispettivamente, Pete Docter (Monsters e co, UP, Inside Out) e Jennifer Lee (Frozen 2). I film con attori in carne ed ossa, d’altro canto non sembrano averlo un direttore creativo. E questo ci porta al secondo punto: la separazione degli studi.
La casa di Topolino per lungo tempo, ha tenuto a mettere ogni sua esperienza sotto l’ombra di un unico marchio. Negli ultimi tempi questa visione è stata messa da parte e il settore animazione e il settore dei film dal vero (a marchio Disney) sono ora da considerarsi come due realtà separate. Due Studios diversi con due Storie diverse.
Non è un caso che la Walt Disney Animation Studios abbia un logo tutto suo da esibire subito dopo quello iniziale del castello.
…e senza anima
Lo studio Live Action non ha nulla di ciò che caratterizza in positivo il suo “rivale”. Non c’è una storia continuativa, solo una serie di happening. Non c’è un direttore creativo che metta attenzione all’aspetto artistico e non c’è una scuola che tracci una tradizione e uno stile solido. Tutto è discontinuo.
Questo tenendo sempre conto che parliamo dei film effettivamente a marchio Disney. Quindi, chiamando fuori le esperienze Hollywood Pictures o Touchstone Pictures (nomi che la casa di Topolino usava per produrre film poco appropriati al marchio principale, come Splash – una sirena a Manhattan, Chi ha incastrato Roger Rabbit?, Il sesto senso, The Rock o L’Albatross) o i Marvel e Lucasfilm.
Lo “sbando” che caratterizza l’esperienza Live-action porta anche al fatto che i progetti finiscano facilmente nel cosiddetto development hell (ovvero in cantiere a lungo, senza trovare un modo per realizzarli), come successo anche con progetti quali Nelle pieghe del tempo o Artemis Fowl.
E questo Jungle Cruise è l’ennesima riprova del problema.
Un problema o una cosa da nulla?
Anche esso ripescato dal development hell (era in cantiere dal 2003, data del primo film della saga Pirati dei Caraibi). Anch’esso vive di suggestioni dai maggiori successi live action (quali la saga di Jack Sparrow). Anch’esso raccoglie i frutti di una lavorazione fatta senza la presenza di un autore che imponga la propria guida, ma piuttosto di una produzione che vuol veder valorizzati aspetti per cui sono state spese enormi quantità di quattrini (come scenografia, effetti visivi e divi) o che vuole esaltare sé stessa, come accade spesso alle produzioni condotte da attori di fortissimo richiamo (come è il caso di questo Jungle Cruise, prodotto dallo stesso Johnson) che hanno il potere di far girare il film attorno a loro.
Solido in pochi punti. Fragile in molti altri
Questo Jungle Cruise si regge grazie all’indiscussa competenza di Jaume Collet-Serra nel gestire le scene d’azione, grazie alla bravura dei protagonisti, con la Blunt (alla quarta collaborazione Disney) e Johnson in ottima sintonia, aiutati da dialoghi simpatici e credibili, e grazie all’indiscusso talento della scuderia Disney nella realizzazione di costumi e scenografie.
Il resto è fiacco, piatto, standard. Il maestro James Newton Howard alla colonna sonora (Red Sparrow, Il cavaliere oscuro, Raya e l’ultimo drago) compone l’ennesimo scimmiottamento di Williams (che va dall’ovvio Indiana Jones, a Star Wars, fino ad Harry Potter), con l’uso pressante di legni, ottoni e archi (allo scopo di ottenere un accompagnamento all’azione estroso, dinamico e giocoso), e di Hermann.
Una timida imitazione che non riesce nemmeno a creare qualcosa di diverso da uno spartito blando o ambient come tanti ce ne sono nelle produzioni hollywoodiane. Anche il tema, unico pezzo davvero di rilievo e interessante, non è nulla di speciale o particolarmente memorabile.
Il fratello McGregor, spalla comica interpretata da Jack Whitehall, sebbene si cerchi di elevarlo e diversificarlo con un po’ di backstory, è l’ennesima spalla comica di un film d’azione o avventura. E anche la trama, seppur relativamente buona, è facilmente dimenticabile.
In conlcusione…
A questo punto, torniamo al problema iniziale. Da che parte state?
Dipende da cosa cercate da questo Jungle Cruise.
Questa ordinarietà generale può essere un problema per chi, come il sottoscritto, sperava in un grandioso e indimenticabile film d’azione e avventura. Ma non lo sarà per chi cerca un film d’avventura tutto sommato simpatico, con diverse punte di creatività e con un buon ritmo.
Se siete in cerca di questo, il viaggio vale il biglietto.