
King Kong: anatomia di un classico
Quando si parla di capisaldi della cinematografia americana di solito vengono in mente film d’autore come Quarto potere, kolossal storici come Via col vento o commedie sofisticate come Susanna!. Difficilmente si penserebbe a un monster movie. Eppure questo è il caso di King Kong che, nonostante l’appartenenza a un genere considerato di serie B, è indubbiamente una pietra miliare del cinema.
Uscito nel lontano 1933, il film nasce dalla collaborazione tra Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, due amici accomunati dalla passione per le esplorazioni e da un passato a dir poco movimentato (partecipazione alla Prima guerra mondiale compresa). Dopo essersi specializzati, negli anni ’20, nella realizzazione di documentari e drammi avventurosi, a partire dal ’31 cominciano a lavorare per la RKO, una delle cinque Major della Hollywood classica. È qui che Cooper, pare in collaborazione con lo scrittore Edgar Wallace, sviluppa il soggetto della pellicola, trasformato poi in sceneggiatura da James Ashmore Creelman e Ruth Rose (la moglie di Schoedsack).
In realtà un film del genere all’epoca non rappresenta proprio una novità. Infatti è solo l’ultimo di un lungo filone di pellicole incentrate su spedizioni in territori misteriosi, abitati da creature preistoriche (definito “dei mondi perduti”, dal romanzo di Arthur Conan Doyle che nel 1912 fa da apripista). Eppure King Kong si distingue non solo per la trama avvincente, gli innovativi effetti speciali e le straordinarie musiche di Max Steiner, ma soprattutto per le riflessioni di natura sessuale, culturale e persino metacinematografica che è in grado di veicolare.
La Bella e la Bestia
Innanzitutto il film si propone come un’originale reinterpretazione de La bella e la bestia. Il motivo fiabesco della giovane donna che si offre in sacrificio a un essere mostruoso ha origini antichissime (il mito di Amore e Psiche può essere considerato un precursore), anche se la versione più conosciuta della favola è quella scritta da Madame Leprince de Beaumont nel XVIII secolo: la Bella, prigioniera della Bestia, finisce per innamorarsene, liberandola dall’incantesimo di cui è vittima e ritrasformandola in principe. Nell’adattare l’archetipo ai tempi moderni, Cooper e Schoedsack raccontano la storia d’amore impossibile tra Kong, un gorilla gigante venerato come un dio dagli abitanti di Skull Island, e Ann Darrow (Fay Wray), una bellissima attrice.
Tuttavia, rispetto alla fiaba, avviene un ribaltamento del punto di vista. Nel racconto classico, centrale è l’evoluzione psicologica della Bella, che nei confronti della Bestia passa dalla repulsione all’accettazione e infine all’attrazione. Una perfetta metafora del superamento, da parte della donna, della paura del sesso e del desiderio maschile, che in un primo momento fanno sembrare l’uomo un mostro, ma che vanno accettati per poter instaurare un rapporto completo e maturo. Nel film al contrario il punto di vista è quello della Bestia che, invece di essere un principe trasformato, stavolta è un mostro a tutti gli effetti. Un cambio di prospettiva confermato dalla natura passiva della Bella: se nella fiaba ha un ruolo tutto sommato attivo, dal momento che è il suo amore a sciogliere il maleficio, in King Kong Ann è per tutto il tempo alla completa mercé del gorilla.
A questo proposito, la scelta della scimmia come rappresentazione della Bestia non è casuale. La diffusione delle teorie darwiniane agli inizi del Novecento porta la gente a vedere i primati come una versione primitiva, pre-civilizzata e istintuale della razza umana. Kong riflette queste suggestioni e diventa incarnazione delle pulsioni più bestiali, primordiali e inconsce dell’uomo, e del maschio in particolare. Istinti fatti di volontà di potenza e desiderio sessuale, che sono liberi di manifestarsi in assenza di umana razionalità. E se la fiaba sostiene che in fin dei conti tali tendenze sono parte integrante della natura umana, il film obietta che le stesse non bastano a definire l’uomo, addirittura possono essere distruttive se non mitigate dalla ragione. Non è un caso che Kong alla fine vada incontro a un tragico destino, abbattuto dagli aerei in cima all’Empire State Building.
Scontro di civiltà
La pellicola può anche essere vista come portatrice di un discorso di carattere culturale. Non è infatti difficile immaginare Kong come una rappresentazione dell’Altro, dello straniero, dell’afroamericano… in breve di chiunque sia considerato estraneo al concetto di civiltà occidentale. Al contrario, la bella, bianca e bionda Ann è la perfetta incarnazione dei valori estetici considerati ideali dalla cultura eurocentrica. È chiaro che i due rappresentino una “coppia improbabile”, ovvero una coppia la cui unione, per la società puritana degli anni ’30 (ma anche un po’ per la nostra), costituirebbe una trasgressione ed evocherebbe il timore irrazionale di un incrocio razziale.
La prima parte del film sembra adottare questo punto di vista. King Kong viene identificato come una minaccia per Ann, tant’è che è benvenuto il salvataggio della donna da parte di Jack Driscoll (Bruce Cabot), fiero esempio (al contrario della scimmia) della “mascolinità bianca”. Tale prospettiva è tuttavia capovolta nel momento in cui l’azione si sposta a New York. Qui il gorilla, liberatosi dalle catene, si dimostra un eroe romantico, preoccupandosi di proteggere Ann dai proiettili dell’aviazione. E la sua fine si trasforma così in un feroce atto d’accusa nei confronti della società occidentale, colpevole di reagire sempre con violenza di fronte a un Altro che non riesce a comprendere.
Cinema e voyeurismo
King Kong è pieno zeppo di riferimenti alla settima arte, a partire da citazioni alle reali esperienze dei due registi. Ma il film non si limita a questo, dal momento che offre una profonda riflessione sul cinema, sia per quanto riguarda l’aspetto produttivo sia rispetto ai processi inconsci che entrano in gioco durante la fruizione di un film. Sono molti infatti i teorici che sostengono che il cinema produca piaceri di natura scopofila e narcisistica, rendendo pertanto gli spettatori degli inconsapevoli voyeur.
Sono molti i momenti metacinematografici che esplicano questa tesi, e quasi tutti coinvolgono il personaggio di Carl Denham (Robert Armstrong), il regista a capo della spedizione sull’isola. Modellato sullo stesso Merian C. Cooper, il cineasta si può considerare l’esempio perfetto del voyeur: perennemente ossessionato dal guardare, specialmente attraverso l’obiettivo della macchina da presa e in maniera furtiva. Un’immagine che (come accade anche ne La finestra sul cortile) rende automatica l’analogia con lo spettatore cinematografico medio.
Impossibile non citare la celebre scena del provino, forse quella più efficace nell’esibire il voyeurismo (anche sadico) insito nel cinema. Per non parlare poi di quando King Kong viene mostrato al pubblico di New York: la riduzione dell’animale a spettacolo crea un forte parallelismo con la riproduzione della realtà sullo schermo cinematografico. Almeno finché il gorilla non si libera, infrangendo quella barriera che normalmente separa lo spettatore dall’oggetto del suo sguardo.
Alla luce di tutte queste considerazioni, ormai dovrebbe essere chiaro il motivo che ha reso King Kong un classico. Lungi dall’essere un semplice monster movie, la pellicola di Cooper e Schoedsack è una favola moderna, un manifesto sociopolitico, un trattato sul cinema. Un vero capolavoro che è diventato mito e ha generato svariati eredi (l’ultimo in ordine di tempo è recensito qui). Non mi sorprenderebbe che tra cento anni avesse ancora lo stesso impatto che ha avuto negli anni ’30. E che ha tuttora.