
Kingsman: ode all’ignoranza intelligente
Avete presente quando un film vi stupisce? Quando pensate di vedervi la solita cagata ma poi vi rendete conto che state guardando qualcosa di più? Beh, Kingsman – Secret Service è tutto questo e molto, molto di più. (Ho già detto “molto”?). Perché la pellicola fa dei suoi difetti i suoi pregi, esagerando, aumentando e cazzeggiando alla grande. Con un’estrema consapevolezza.
Facciamo un salto indietro. La storia è partorita da quella mente geniale, perversa, malata e geniale (cavolo, oggi sono in vena di ripetizioni, scusate) di Mark Millar, fumettista scozzese al quale bisognerebbe fare delle statue. Ops, sto esagerando anche io. Forse. Avete presente Civil War e Kick-Ass? Beh, roba sua. Mica La Pimpa. Comunque, non sempre una storia a fumetti funziona sul grande schermo, anzi, ci vuole una mano sapiente per far girare gli ingranaggi da cartacei a celluloidi. Ma se c’è un regista che ama i tuoi scritti, che fa di tutto per rendergli onore, che riesce davvero a dargli vita, allora che succede? Magia ragazzi, magia.
Il regista in questione si chiama Matthew Vaughn, inglese fino al buco del chiulo. Impara tutto quello che deve da Guy Ritchie (producendogli i due suoi film migliori) fino ad entrare nel giro dei big money prima con Kick-Ass, poi con X-Men – L’inizio. E qui c’è il bivio. (Ora arrivo a parlare di Kingsman, scusate). Dicevo, visto il successo del primo film, Vaughn viene confermato per il nuovo capitolo sugli Uomini-X, che si prospetta il solito blockbusterone macinasoldi. Ma lui sceglie di mollare tutto e di scrivere, produrre e girare Kingsman. 92 minuti di applausi.
E quindi? Quindi partiamo con un minimo di trama, perché è canonico (e vi avverto subito, potreste incappare in taglienti spoilerz): i Kingsman sono agenti segreti al quadrato. Del tipo che James Bond non gli può nemmeno portare il tè. Perché non sa che esistono. Gentiluomini, aristocratici, eleganti e raffinati. Ma solo nei modi, perché chiunque può diventare un gentiluomo, dato che manners maketh man, e non il suo lignaggio. Bene, e chi meglio di un London bloke allora, uno di quei tipi che parlano lo slang delle strade, che hanno le mani svelte e sanno come fregarti. Eggsy (Taron Egerton) è però un predestinato, senza nemmeno saperlo. Serve solo una telefonata per uscire di galera e catapultarsi in un mondo che tutti sognano, ma che nessuno immagina possa davvero essere così. Però questo è Kingsman, e attraversata la tana del Bianconiglio nulla sarà più come prima.
Ma quindi perché annoiarvi con un riassunto della trama? Se l’avete già visto non vi serve, e se dovete ancora vederlo, beh, intanto correte a farlo, poi tornate qui a leggere questi sproloqui pseudo intelligenti. Kingsman è un gioco nel gioco, una matrioska di citazioni alla cultura pop spionistica, una celebrazione di film cult che di vero avevano poco, ma che hanno fatto la storia.
Non ditemi che guardandolo non avete sentito l’eco di una pistola dorata, o di Ursula Andress che esce dall’acqua in bikini, o ancora di un laser rosso sangue pronto a tagliare il vostro corpo a metà. Citazione nella citazione. Capite perché adoro quel pazzo di Vaughn?
Ma non divaghiamo, Kingsman si regge soprattutto su di lui: Richmond Valentine, interpretato da un Samuel L. Jackson fenomenale. Il cattivo perfetto, per un semplice motivo: alla fine, purtroppo, ha ragione. Certo, quello che vuole fare è leggermente folle, ma non ha tutti i torti. Perché se il virus finisce per uccidere l’ospite allora bisogna debellare il virus. E un cattivo esagerato che si rispetti deve fare qualcosa di esagerato, altrimenti le cose resteranno sempre come sono. Ma i due scambi di battute tra Valentine e il Kingsman Galahad (un Colin Firth da amare alla follia) ci fanno capire che non siamo in quel genere di film. Cioè, ci siamo e non ci siamo. Perché i cliché squisitamente goldfingeriani e blofeldiani (passatemi gli aggettivi campati per aria), sono appunto cliché. Kingsman omaggia, ma non può restare ancorato a quel genere di film proprio perché non lo è.
Kingsman è infatti il figlio ribelle di quelle vecchie pellicole, un figlio un po’ pazzo ma che sa intrattenere una festa intera con un solo schiocco di dita. Il tipico ragazzo che può ma non si applica, perché non deve applicarsi, è già perfetto così. E lo sa dannatamente bene, infatti con un sorriso rimorchia la reginetta di bellezza (salvo poi scaricarla alla prima buona occasione).
Tutto è volutamente esagerato, tutto stride con la mente dello spettatore, che continua a ripetersi “no, non l’hanno fatto davvero!”. Ma il bello di Kingsman è soprattutto il suo non prendersi assolutamente sul serio. Il film gioca con sé stesso, ricordandoci che stiamo guardando gente che usa un ombrello antiproiettile. E infatti Galahad ha una stanza tappezzata di prime pagine del The Sun, uno dei tabloid più beceri, populisti e vagamente ignoranti che albergano sul suolo inglese. Una roba che un gentiluomo così squisitamente British come lui non dovrebbe nemmeno sfiorare con un dito. E invece. Dopotutto due cheesburger del McDonald sono perfetti con uno Château Lafite del 1945, e come dessert invece i Twinkies con uno Château d’Yquem del 1937.
E Matthew Vaughn in tutto questo cosa fa? Niente di che, decide solo di girare una delle sequenze action migliori della storia del cinema. Sì, l’ho detto e non me lo rimangio nemmeno sotto tortura. Sto parlando proprio di lei: LA. SCENA. DELLA. CHIESA. Con l’adrenalina pompata a mille, Vaughn lancia la sua macchina da presa sui dettagli più truculenti, sfrecciando da un pugnale ad una pistola, da una mutilazione ad uno sbudellamento, senza dare quasi il tempo allo spettatore di capire cosa sta succedendo. In quella scena, ma anche in tutte le altre sequenze d’azione di Kingsman, il regista riesce a rendere dinamica ogni inquadratura, facendo scattare la telecamera, fluida come un ghepardo pronto ad avventarsi sulla preda: bellissima e letale.
C’è poco da dire, Kingsman è una piccola perla esplosiva, perfetta nella sua stupenda ignoranza consapevole. Certo, ci sono momenti in cui si nota il budget non da blockbusterone, soprattutto negli effetti speciali che a tratti non sono resi alla perfezione. Una delle scene finali è infatti visivamente inaspettata e poco canonica, così colorata e pop da poter risultare fastidiosa. Ma secondo me ha solo accresciuto il valore del film, esagerando ancora di più un prodotto che gode nel destabilizzare la mente di chi guarda.
Perciò è inutile negarlo: Kingsman è un film da perderci la testa. (Ok, ultima pessima battuta, ho finito).
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