
Klaus: alla scoperta delle remote origini di Babbo Natale
Solo a me sembra che il Natale quest’anno stia arrivando con un po’ troppo anticipo? Sono anni ormai che il consumismo mi fa percepire questa sensazione, ma quest’anno mi stavano facendo sentire in clima natalizio già a fine ottobre! E Netflix segue a ruota questo anticipatissimo fare consumistico e mette a disposizione sulla piattaforma questo nuovo Klaus già da metà novembre.
Per dovere di cronaca sappiate che sono una di quelle persone che se potesse scegliere il Natale lo passerebbe a fare le sue bellissime cose di sempre anziché stare in famiglia – mi perdonerete il cinismo. Quindi, di conseguenza, il mio spirito natalizio – ahimè – è spento da un po’ di anni ormai. Sono una persona triste. Tuttavia per qualche strano motivo le cose legate al Natale continuo a farle: guardare film di Natale, ad esempio, che di solito è una pessima scelta per un cinefilo; o ancora, andare ai mercatini natalizi (sarei capace di andare in Trentino solo per vederne di belli). Forse un po’ di spirito natalizio ce l’ho ancora…
Comunque sia, siamo qui per parlare di Klaus, non di me. Non mi sarei mai aspettato di guardare un film di questo tipo, ma due cose mi hanno attirato con forza: il trailer, a mio parere bellissimo; e il fatto che è il primo film d’animazione di Netflix. Sugo sugo sugo.
Non che ci siano spoiler enormi da fare, ma tranquilli, preserverò i segreti.
Il cammino dell’eroe
La cosa interessante di Klaus è che non ci racconta la storia di Babbo Natale. O meglio, sì, ma indirettamente. La narrazione infatti segue le avventure di Jesper, ricco ereditiero altezzoso e arrogante che viene mandato dal padre, stufo della sua nullafacenza, a Smeerenburg, nella profonda Norvegia, a ripristinare la stazione di posta.
Dicevo che non c’è molto da spoilerare perché Klaus si regge interamente su archetipi narrativi arcinoti, in particolare quello cosiddetto del “cammino dell’eroe”. In pratica la storia segue un personaggio con doti e abilità che non vengono messe a frutto; spesso questo personaggio è altezzoso e insolente perché è consapevole della sua autorevolezza; spesso per questo atteggiamento gli succede qualcosa che lo costringe a rimettersi in gioco; alla fine del percorso egli è cambiato e ha raggiunto un’alta integrità morale. Paro paro quello che succede a Jesper.
La cosa interessante, però, come stavo dicendo, è che non è lui al centro dell’attenzione: ai fini della narrazione Jesper è un mezzo per raccontare le origini di Babbo Natale. Personalmente trovo che raccontare del grassone con la barba senza renderlo il protagonista della storia sia una scelta azzeccata, perché lascia intorno al personaggio un alone di mistero e ce lo fa scoprire solo un pezzo alla volta. E ovviamente nel frattempo, tramite il personaggio di Jesper, il film può anche veicolare il suo messaggio morale.
Ogni gesto di vera bontà…
Questa è forse la nota più dolente del film. Potrei riassumerne il messaggio in: la bontà porta a risultati positivi e solo con la bontà sarai felice. Posso essere d’accordo quanto volete, ma quante volte l’abbiamo già sentita ‘sta cosa?
Lo so, è un film di Natale. Ma il fatto è che non lo è esattamente, Klaus si presenta come un outsider, come un film sul Natale, ma che ha qualcosa di diverso. E in effetti è così, ma il messaggio ne esce appiattito per qualche strana ragione.
E voi mi direte “ma dipende anche come lo veicoli il messaggio”. Questo è un punto, perché la caratteristica peculiare era proprio quella di spostare l’attenzione dal Natale in sé per sondarne le origini “mitiche”. Ma poi tutto questo non serve a niente se il messaggio si riduce a: bontà bene, cattiveria male. Ed è ovvio che c’è da considerare che è un film di Natale, che è un cartone animato e che deve parlare ai bambini, ma secondo voi, nel 2019, è ancora questo il modo giusto di insegnare le cose?
Non sto cercando di mettere in dubbio il valore di tale insegnamento: ogni bambino nuovo al mondo deve imparare che la bontà è preziosa. Klaus, però, non è esattamente quel cartone animato che fai vedere a un bambino piccolissimo e dunque, rispetto ad un pubblico un poco più cresciutello, ti aspetti un messaggio un attimino più elaborato. Che poi non è scritto da nessuna parte che non si possa trasmettere un messaggio anche complesso ma in modo semplice.
Forse ci sarà di mezzo anche lo zampino di Netflix? Ormai polemizzarci contro è diventato sterile.
Questo lo accenno e basta perché per spiegarlo dovrei entrare in dettagli ad alto tasso di rischio spoiler. Per alcuni aspetti il film sembra riprendere/citare/omaggiare The nightmare before Christmas. Magari sono io analogicamente stupido.
Disegnini e cose tecniche
Ho apprezzato tantissimo la tecnica di animazione (mista, a quanto pare). Rimane impressa, è memorabile e sottolinea ogni particolarità di ogni personaggio, che mai si confonde con gli altri. La cosa da apprezzare, a mio parere, è che ci troviamo davanti un’animazione che è sia minimale che complessa.
È minimale nei disegni, talvolta al limite dell’abbozzo con linee, e in generale nei paesaggi; ma è molto complessa per esempio nella realizzazione dei volti e soprattutto nel conferire tridimensionalità all’immagine. Per questo vi parlavo di animazione mista, perché di base si svolge come un’animazione tradizionale, ma giocando con la luce e coi volumi conferisce tridimensionalità avvicinandosi quasi a un’animazione 3D. So strange, ma bello bello.
Oh giusto: voglio che Klaus (Babbo Natale) diventi il mio nuovo nonno. Adesso.
Realismo magico
Avete mai letto La casa degli spiriti? oppure Cent’anni di solitudine? Bé, se lo avete fatto sapete cosa significa realismo magico; per tutti gli altri che odiano i sudamericani che non lo sanno…
Con realismo magico, in breve, si intende un’impostazione narrativa che ha tutte le caratteristiche del realismo ma che infiltra in esso elementi sovrannaturali o simili. Che so, una ragazza alla corte di Napoleone ha i piedi palmati. Capito il senso? Sì, stavo citando Angela Carter.
Qui Klaus è interessantissimo, perché la storia di Babbo Natale tutto dovrebbe essere fuorché realistica. Scusate bambini che credevano (ancora) in Babbo Natale. E forse la forza del film sta tutta qui: nello spiegare realisticamente e plausibilmente le origini mitiche di Babbo Natale. Faccio solo un piccolissimo esempio. Si ritiene che le renne volino perché un bambino una notte le ha viste “volare” (precipitare) giù da un dirupo. Sostanzialmente è una sorta di smascheramento delle origini di Santa Klaus, è un far vedere che può esistere lo stesso anche senza la magia.
Forse era anche questo il messaggio che si voleva passare, anche se mi sembra un po’ abbandonato al suo destino, non spinto veramente perché arrivi alle platee.
In questa dimensione “fintamente magica” anche Babbo Natale è senza poteri: è un falegname che produce giocattoli. Ma senza l’aiuto di Jesper, il postino, non può compiere quello che diventerà il suo lavoro. E quindi anche qui c’è un messaggio, di nuovo banalotto, sulla scia de “l’unione fa la forza”, però c’è. E il fatto è questo: i sottotesti da leggere ci sono anche, ma bisogna cercarli col telescopio, quello che resta alla fine è solo il discorso sulla bontà.
Devo ammettere che forse mi sarei aspettato qualcosina di più da questo Klaus. Tuttavia è un film che val la pena di vedere, magari in famiglia, e che comunque regala chicche e originalità.
Quindi, Netflix, per questa volta ti concedo un “quasi ben fatto”. Alla prossima.