
Kodachrome sarebbe potuto essere uno dei miei film preferiti
Io cerco subito di promettervi una cosa: questo articolo non sarà solo un’esegesi di Elizabeth Olsen, creatura onirica che l’universo ha deciso di posare su questa nostra stanca Terra, solo per farci beare, immobili, della sua presenza. E no, non sono al punto in cui mi incazzo se qualche attore la bacia in un film, tranquilli. Ora prendo le pillole e arrivo, che bisogna parlare di Kodachrome.
Eccomi. Stavamo dicendo? Ah, già, Elizabeth Olsen Kodachrome, questo film di Mark Raso sparpagliato in vari festival del quale Netflix ha preso i diritti.
Ora, se me lo concedete, vorrei tentare un esperimento assieme a voi: evitare la canonica recensione. Perché? Beh, come da titolo, Kodachrome sarebbe davvero potuto essere uno dei miei film preferiti, ma così non è stato. Quindi andiamo a vedere come lo sarebbe potuto essere, dove lo sceneggiatore (tal Jonathan Tropper) ha scazzato e come avrebbe potuto farlo davvero diventare un gioiello da vedere e rivedere. Perché gli ingredienti c’erano tutti, bisognava solo avere le pelotas di tirar fuori una cacio e pepe con mentuccia selvatica invece di usare quella disidratata nei barattolini di vetro. Ma sto divagando, e nemmeno verso Elizabeth. Oddio, cioè, se vuoi te la cucino io la cacio e pepe eh, pure tutti i giorni. Sposami, ti prego.
Ok, ok, cominciamo. D’ora in poi ci saranno spoilerz su Kodachrome, siete avvertiti. Per quel che vale.
Perché il difetto principale di questo film è l’essere… un film. Spiego (cit.): Kodachrome parla di vita vera, vissuta, scavata sulla pelle. In estrema sintesi: Jason Sudeikis interpreta un discografico sull’orlo del licenziamento che viene ricontattato dal padre (un Ed Harris mastodontico) fotografo di fama mondiale, malato terminale e stronzo apocalittico. Il motivo: accompagnarlo (assieme all’assistente/infermiera Elizabeth Olsen ciao Elizabeth ti amo) in Kansas, a sviluppare l’ultimo rullino di pellicola Kodachrome, dato che la Kodak, dopo un tal giorno, smetterà di produrla/svilupparla. Ecco, vita vera, no? E pure del tipo che ti prende a calci nel fegato mentre sei per terra. Peccato che in Kodachrome succede tutto quello che ci si aspetta da un film concepito per essere tale: tutto accade al momento giusto, tutto è preciso e perfetto nella sua imperfezione, tutto fa apparire cuoricini coccolosi dove dovrebbe sgorgare fango.
E quindi? Quindi proviamo a capire, tramite alcuni punti, come questo film avrebbe potuto portarsi a casa almeno un pezzo di Sundance, invece che un grosso sospiro di “peccato” che si perde nell’aere.
PRIMO ATTO
Scusate, doverosa premessa. A me Jason Sudeikis sta anche simpatico, in film cazzari che iniziano con “Come eccetera”. E quando deve fare il coglione anche un po’ stronzo funziona. Sui risvolti drammatici però c’è ancora da lavorare, e parecchio, altrimenti metti due lacrime a un prosciutto e il gioco è fatto. Fine premessa.
Fatto sta che la prima coincidenza è già troppo da film: nel giorno in cui ti stanno per licenziare male arriva la donna più bella del creato a dirti che tuo padre (con il quale non parli da dieci anni) sta morendo di cancro e vuole fare sto viaggio con te. Ok, un po’ tirato, ma possiamo accettarlo.
Funziona anche il “ricatto” per convincere il nostro facciadaschiaffi (perché sì, Sudeikis ha un po’ la faccia da schiaffi) a partire. Anche se, scusate, ma con la prospettiva di un viaggio con Elizabeth Olsen io sarei partito pure se mio padre avesse avuto una svastica tatuata sulla fronte.
SECONDO ATTO
Tutti i dialoghi di Ed Harris funzionano. Il personaggio è sì già visto, ma scritto bene, stronzo merdoso al punto giusto e interpretato da un attore pazzesco che, per qualche malsana ragione a me sconosciuta, non ha mai avuto quel riconoscimento vero che si meriterebbe (sì ok, Westworld e 4 nomination all’Oscar, ma non bastano).
Bella la parentesi “fraterna”, con quella bomba inaspettata sganciata dal nulla (forse l’unico vero colpo di scena di Kodachrome), ma pure lì, quando Sudeikis chiede a Sua Beltà se il suo ex marito l’aveva tradita, e lei glissa, sai già PERFETTAMENTE che ci sarà una scena di litigio in cui lei urlerà “non è lui che ha tradito me, sono io che ho tradito lui”. E infatti.

Fortuna che loro due non hanno ciulato alla prima occasione, ma anzi, Ed Harris scherza proprio sul fatto che avrebbero potuto, dato che l’universo tutto gli diceva “fatelo fatelo fatelo fatelo fatelo” e non sono riusciti a concludere. Avrebbero potuto giocarsi questo controcanto al sapore di rasoio più spesso, invece di finire nelle emozioni facilone che sì, funzionano, ma alle quali siamo ormai troppo abituati.
Ecco, Kodachrome rivela la sua vera natura quando, durante l’ennesimo confronto padre-figlio, Harris dice “stiamo sempre parlando di pellicola?” quando stavano palesemente parlando del loro rapporto, ma tirare fuori il sottotesto così, dopo due battute, ammazza tutta la bellezza del dialogo. E questo è un po’ Kodachrome, può ma non si applica.
Persino la caduta dell’eroe è frutto di una coincidenza troppo fortuita. Cioè, Ed Harris che si piscia addosso proprio mentre Sudeikis sta conquistando la band che gli serve per non perdere il posto. Dai, davvero? Proprio in quell’esatto istante? Non vi è venuto in mente nulla di più… vero? Sono tutte cose che vanno bene, per carità, ma sono anche tutte cose che lasciano il film in un brutto limbo tra il carino e il rischio dimenticabile.
TERZO ATTO
Quando Ed Harris dice che vuole sviluppare foto vecchie (“uno dei miei primi lavori”) pure i sassi sordomuti capiscono di che foto si tratta, e che non le vedrà mai sviluppate, cioè, davvero, tirate fuori un cliché cinematografico e Kodachrome ce l’ha, fortuna che li sfrutta molto bene a livello emotivo (complice anche l’ottima colonna sonora). E ok eh, il senso di questo film è proprio la redenzione di un padre/artista che ha sacrificato ogni affetto privato in nome della sua passione. Però. Porco di quel belino. Immaginatevi questo: padre e figlio litigano un’ultima feroce volta, rinfacciandosi qualcosa di davvero gargantuesco del loro passato. Il padre muore poco dopo, senza potersi davvero concedere quella catarsi finale con la persona a cui ha donato la vita. Poi il figlio fa sviluppare le foto, perché ormai, arrivato a quel punto, lo avrebbe fatto e… cazzo, mio padre mi ha sempre voluto bene, nonostante tutto. Anzi, rincaro la dose: parte il proiettore, primo piano sul prosciuttone Sudeikis che passa da faccia molto triste a molto felice/stupita, nero e foto della famiglia sui titoli di coda. Boom, dammi il Sundance, grazie.
Invece qua si è optato per il volemmosebbene facilone con, e qui mi sono girati i cabbasisi, l’Essere Perfetto che arriva e-sat-ta-men-te quando Sudeikis guarda le foto. Non prima, non dopo, proprio in quel preciso istante. Bravi eh, lacrimoni e via, peccato che sia credibile quanto Andreotti che dice “non sono stato io”.
E quindi è andata così, Kodachrome resta un film carino, con una regia discreta e un po’ di servizio (che ha qualche guizzo qua e là, gli va riconosciuto, però c’è ancora da lavorarci) ma che sarebbe potuto davvero essere uno dei miei film preferiti. Ma pure uno dei vostri, cosa vi credete.
Io vi lascio così, a metà, come il film (ironicamente girato in pellicola 35mm e disponibile su Netflix), come questa recensione, incapace di prendere una strada, sbocconcellando qua e là senza una meta. Magari, per sentirmi meglio, riguardo Nebraska, tanto devo aspettare il ventunesimo poster di Elizabeth da appendere in camera, la copisteria ha tempi lunghi.
Anzi, no, vi lascio con l’ultima piccola incazzatura: la frase più bella di Kodachrome, tragicamente vera e perfetta, tanto quanto il film non è riuscito a essere:
La felicità è una puttanata. È il grande mito del tardo ventesimo secolo. Pensi che Picasso fosse felice? Pensi che Hemingway lo fosse? Hendrix? Erano tutte merde infelici. Nessuna forma d’arte valida è il prodotto della felicità, te lo posso assicurare. Ambizione, narcisismo, sesso, rabbia, questi sono i motori che muovono ogni grande artista e ogni grande uomo. Un buco impossibile da riempire. Per questo siamo tutti degli stronzi infelici.