
Kusturica ci porta Underground per un Novecento balcanico grottesco e alternativo
Anno 1995. Emir Kusturica decide di girare un memoir sull’ultimo secolo di storia del suo paese, e finisce per creare un capolavoro a cavallo tra umorismo irriverente, dramma spietato come solo la realtà sa essere e grottesco al quadrato.
Underground racconta le vicende di Marko e Nero, due amici dai risvolti picareschi, tanto patrioti quanto dediti al crimine – ma quello spicciolo, perché le grandi gesta nel bene e nel male non fanno per loro, e delle pieghe surreali che prendono le loro vite nella Belgrado del 1941. Mentre combattono i tedeschi, uno dei due viene ferito e si rifugia con un gruppo di persone in una cantina, mentre l’altro diventa prima un eroe nazionale, poi un vicinissimo di Tito; e non avendo alcuna intenzione di far tornare gli altri a rivedere la luce (con motivazioni che non potrebbero essere più distanti dall’affetto e dal bisogno di protezione di Goodbye, Lenin!), li convince per decenni che la guerra non è finita e che è non solo più sicuro, ma anche più elettrizzante rimanere underground.
Sennonché l’amico sepolto si insospettisce sempre di più, fino a prendere coraggio e a tornare a riveder le stelle; si fa per dire, perché sotto al sole non trova nient’altro che l’ennesima guerra, questa volta fra serbi e bosniaci. La sua amata Jugoslavia, unico punto di riferimento degli anni trascorsi sottoterra, è stata smembrata.
Kusturica mette in scena una favola allucinata per mostrarci la ciclicità e l’inutilità della storia, in particolare del Novecento balcanico: repubbliche sovietiche dai confini incerti, costruite sul nulla, e destinate a trasformarsi in un altro nulla. Il tutto attraverso tradimenti, guerre, bagni di sangue. Ecco allora che rifugiarsi sotto tutto questo diventa il modo per evadere e vivere in un eterno presente, dove la guerra la si combatte a parole, ma in verità si pensa più a banchettare e a scopare. Perché quello che aspetta fuori, e per cui tutti sono disposti a uccidere, forse non vale poi così tanto la pena.
Underground è un film che si regge sulle allegorie – una su tutte, il crocifisso a testa in giù del finale -, e che trasuda voglia di vivere nonostante la disperazione: voglia di vivere che si manifesta con la battuta greve, con il sesso, con le abbuffate, in uno stile da circo est-europeo che corre sulle musiche di Goran Bregovic, sugli scenari onirici e ridondanti tipici di quei luoghi, e sulla verve polemica e sarcastica di quei popoli. Un film che Morandini ha definito “un Alice nel paese delle meraviglie riscritto da Kafka, con Hyeronimus Bosch come scenografo e Francis Bacon direttore della fotografia”, e che si è guadagnato la Palma d’Oro a Cannes. In breve, un film da vedere.