
La caduta dell’impero americano: sangue, finanza, sesso. E filosofia
Ve lo ricordate Il declino dell’impero americano? Era il lontano 1986 e dal confine canadese Denys Arcand gigioneggiava sulla decadenza dei suoi vicini di casa, il tutto naturalmente condito con un po’ di sesso, intrighi amorosi e supponenza. Ebbene, a distanza di più di trent’anni, ecco che nel 2018 il regista se ne esce con un quasi omonimo: La caduta dell’impero americano, questa volta. Come dire: a ‘sto giro è più catastrofico, scordatevi la filosofia come ancora di salvezza, non c’è scampo. E in effetti, La caduta dell’impero americano si apre in un bar di Montréal con una discussione parecchio filosofica e discretamente sterile fra Pierre (Alexandre Landry), fattorino che si reputa troppo intelligente per essere felice, e la sua quasi ex ragazza Linda (Florence Longpré), la quale comprensibilmente è un pelo affaticata da tutta questa pioggia di ottimismo. Ma la scena cambia subito: durante una consegna, Pierre assiste a una rapina, ci scappa il morto, sangue e violenza a gogò, e lui decide di intascarsi il malloppo nella confusione generale. Peccato solo che così facendo si infilerà in una guerra tra gang molto poco filosofica e molto, molto sanguinolenta.
Questa è la prima, macroscopica differenza tra La caduta dell’impero americano e il suo predecessore: il primo era tutto ambienti universitari, palestre e scampagnate, e il massimo dell’eccesso era un tipello grezzo con cui una delle protagoniste amava dilettarsi; qui ci sono i soldi, le pistole, il conflitto razziale, la disparità sociale. Tutte cose che indicano che il modello di società a cui siamo abituati è profondamente sbagliato, e destinato presto o tardi a fallire.
E, poiché dagli Anni Ottanta ad oggi anche il sesso è diventato meno divertente, qui di intrallazzi e leggerezza non c’è traccia; il povero Pierre si invaghisce di Aspasia, al secolo Camille (Maripier Morin), escort d’alto bordo che oltre ad essere bellissima ha studiato e, cosa più importante, sembra avere un’anima. Però costa, almeno all’inizio, e pure parecchio, perché anche il cuore più nobile preferisce piangere in una Jaguar che in metropolitana. Per fortuna che c’è l’ex galeotto Sylvain (Rémy Girard) che ha approfittato della prigione per laurearsi in economia e può quindi dare una sistemata allo scottante bottino di Pierre. E accanto a lui uno che in prigione non c’è ancora andato, ma che sembra la caricatura dei finanzieri cattivi e senza scrupoli: Monsieur Taschereau (Pierre Curzi), che nello studio si tiene opere d’arte inestimabili, mentre i comuni mortali “possono sempre andare al museo”. Alle loro calcagna i soliti poliziotti tipo (Louis Morrissette e Maxim Roy): onesti, delusi dalla vita, sottopagati ma ancora idealisti, a modo loro.
La caduta dell’impero americano è una specie di thriller sociologico, dove sparatorie, alta finanza, buoni sentimenti e citazioni letterarie si mescolano sapientemente: sempre sull’orlo della saccenteria, ma abilissimo nel non cascarci mai del tutto. Se Pierre e Camille possono risultare quasi stucchevoli nella loro ingenuità, nel caso della ragazza ancora più improbabile, Sylvain e Taschereau sono il contraltare cinico che riesce a stemperare l’eccesso di zuccheri. I personaggi di contorno non sono da meno: la coppia scalcagnata che diventa in modo allo stesso tempo furbo e inconsapevole parte di una catena di riciclaggio di denaro è il perfetto ritratto dell’omuncolo medio. Quello che ci capisce poco, ma vuole arricchirsi a tutti i costi, e spesso causa senza neanche accorgersene la crisi economica del secolo. La caduta dell’impero americano, per l’appunto.
Finale speranzoso che sembra dire che un mondo migliore è possibile, il che ci ricorda che quello che stiamo guardando non è un documentario, ma un film: da vedere per la tensione narrativa e per sentirsi particolarmente intelligenti su alcuni riferimenti, ma non sperate che la vita vera vada anche solo lontanamente così.