
La casa dei nostri sogni: Cary Grant e l’eterno dramma del mattone
Se vivete in una città degna di questo nome, probabilmente definirete “cucinare” l’aprire una busta di salumi e il mangiarli con le mani senza manco l’ausilio di un piatto, vi sarete dotati di sedicenti elettrodomestici in grado di pulire in autonomia il vostro bilocale da tre metri quadri e passerete la maggior parte del tempo fuori dalle mura domestiche. Però almeno una doccia e una dormita ogni tanto le dovrete fare: è in quel preciso momento che pensate a tutti i modi per uccidere il vostro padrone di casa e con esso il suo affitto da strozzino, e contestualmente vagheggiate di possedere La casa dei nostri sogni.
Ecco, è esattamente quanto accade al sempre impeccabile Cary Grant nell’omonimo film del 1948 diretto da Henry C. Potter: non è il terzo millennio ma gli Anni Cinquanta, non è Milano ma la molto più grande, caotica e soprattutto cara New York, non è un giovane laureato precario ma un rispettabile padre di famiglia di professione Mad Men, però la sostanza è la stessa: la metropoli scintillante è bella, ma tutt’altro che economica, e in quattro persone più una domestica e un canarino in un appartamentino del centro si comincia a stare stretti.
Potremmo intavolare un dibattito sul fatto che ai tempi con un solo stipendio, ché l’adorabile mogliettina (Myrna Loy) si guarda bene dal lavorare, ci si campava in quattro, che quello che per i protagonisti è un buco per noi è Versailles, che al giorno d’oggi la donna delle pulizie, pardon, la cameriera che fa anche da tata – cuoca – psicologa ce l’hanno solo i super ricchi, che pensare di investire nel mattone è diventata un’utopia, ma non è questa la sede per imbastire un’analisi sociale: limitiamoci quindi a sorridere delle peripezie di Jim Blandings, che ogni mattina si trova costretto a farsi la barba tra i vapori della doccia della consorte, che vede i suoi calzini progressivamente sfrattati da armadi e cassetti, e che ha pure due figliolette pre-adolescenti tanto progressiste quanto viziate.
Certo, si potrebbe pensare di buttare giù qualche muro; ma perché non fare le cose in grande, avventurarsi nel selvaggio Connecticut e regalarsi La casa dei nostri sogni? Tra fantasie di giardini fioriti, battute di caccia e pranzi all’aperto, l’ingenuo Jim decide di comprare una catapecchia in cui forse decenni prima il nonno di Roosevelt si era fermato ad abbeverare il cavallo: imperdibile, vero? E poco importa se sul rudere grava un’ipoteca, se la cosa migliore da fare è buttarlo giù e ricostruirlo da zero, se i preventivi saranno molto più ottimisti della realtà; per La casa dei nostri sogni il cuore vale più del cervello.
La casa dei nostri sogni non è un film che entrerà nella storia del cinema, e probabilmente neppure Cary Grant se lo sarà ricordato come una pietra miliare della sua carriera; però, nel suo essere deliziosamente datato, vi farà sbellicare dalle risate. Menzione d’onore alla voce narrante, l’avvocato e migliore amico di Jim Bill (Melvyn Douglas), e a tutta la pletora di carpentieri, muratori e idraulici che affollano il maniero del nostro – la scena della scavatura del pozzo e della ricerca dell’acqua da sola vale il film.
Eppoi suvvia, La casa dei nostri sogni vi lascia persino un insegnamento: se state pensando a distese di verde, cabine armadio sterminate e cucine degne di Masterchef, fate un bel respiro, concentratevi sulle vostre minuscole, adorabili quattro mura e date un’innaffiata al basilico che in uno slancio di entusiasmo avete parcheggiato sul vostro microscopico balcone; vi accorgerete di essere ormai dipendenti dal rumore del tram sotto alle finestre, dallo smog e dai vestiti tutte e quattro le stagioni ammassati in un solo cassetto.