
La Casa di Jack – Il nuovo vecchio Von Trier torna, stupisce e si racconta
My old friend… we meet again.
Caro Lars, era tanto che non ci trovavamo faccia a faccia. L’ultima volta mi avevi fatto guardare dentro l’abisso e per poco non ne uscivo più. Furbacchione! Tutto questo odi et amo mi era un po’ mancato, devo essere sincero.

La causa dei miei più grandi mali cinematografici, L. Von Trier, torna di prepotenza con un film che definire atteso e chiacchierato è dir poco: parliamo de La Casa di Jack. Nonostante la traduzione da far accapponare la pelle (The House that Jack Built in originale) e alcune dicerie fasulle di gente che scappa dalla sala a metà proiezione per l’eccessiva violenza, La Casa di Jack si presentava come il folle viaggio nella mente di un serial killer. Ispirato al personaggio di una filastrocca scandinava, Jack è uno dei più violenti, sadici e psicopatici assassini mai visti.
Un’opera che odora tanto di sfida. Vietato tirarsi indietro, anche per i cinefili più fifoni e occasionali in materia eccesso.
Oltre il genere e l’arte dell’omicidio
Von Trier non va chiaramente per il sottile nemmeno questa volta: mostra il suo lato più narcisista e “commerciale”, dividendo il film in capitoli e narrandolo sotto forma di dialogo tra Jack stesso e il misterioso Verge (un compianto Bruno Ganz). Nymphomaniac vi dice qualcosa? Chiedo, anche perché molti di voi avranno visto solo questo fra tutta la filmografia del maestro Lars. La Casa di Jack è letteralmente un flusso di coscienza, in cui vengono rievocati gli incidenti (chiamati proprio così) nei quali il nostro protagonista uccide donne e bambini. Un salotto filosofico capace di stregare gli occhi e le menti degli spettatori, sconfinando il genere dell’horror psicologico per arrivare in una realtà metaforica chiara e lucidissima in tutta la sua follia.
Matt Dillon veste miracolosamente i panni di un sociopatico molto classico nell’idea e nella resa (maniaco compulsivo, totalmente apatico, ecc.), che grazie ad una scrittura sublime riesce a non uscirne banalizzato. Ma su quello non avevo alcun timore. Il cast di contorno poi, mi manda fuori di testa come per ogni suo film: Uma Thurman si ricorda di essere un’attrice anche in una piccola parte come quella della prima vittima; Riley Keough si conferma una delle migliori attrici del momento negli States. Poi c’è Bruno… A pochi giorni dalla sua dipartita, rivedere Ganz sullo schermo è un colpo al cuore; a metà tra Caronte e Virgilio, il suo Verge è un personaggio di uno charm accecante. Il degno saluto a una vera leggenda.

Troppo facile vedere in Jack un ritratto autobiografico di Von Trier: il primo protagonista maschile della sua carriera è ironico, grottesco, misogino e allo stesso tempo perdutamente innamorato dell’arte; dietro allo sguardo glaciale dell’ennesimo figlio di Psyco si nasconde Lars, in tutto il suo pessimismo cosmico e odio per l’umanità. La Casa di Jack non vede nella violenza una via per la purificazione, ma solo violenza. Arte e omicidio, sacrificio e dedizione… Se vi aspettavate la solita storiella del c***o siete pregati di rivolgervi altrove.
L’empatia dell’orrore
Vogliamo parlare di come gira Von Trier? E va bene, facciamolo. La Casa di Jack è un saggio sull’uso della camera a mano: mai un movimento eccessivo, mai un’inquadratura fuori posto. Il Dogma di Lars esalta una regia sempre ispirata, autocitazionista e con la giusta dose di humour nero. Poi dai, se Gaspar Noé ride durante la proiezione a Cannes mentre la platea grida allo scandalo un motivo ci dovrà pur essere.
A proposito di pubblico indignato… La Casa di Jack è davvero così violento come tutti dicono? Nì. Manco a dirlo, gli omicidi sono ripresi daddio: inquietanti al punto giusto (l’incidente numero 3, quello della caccia, mi tormenta da un paio di notti), abbiamo tette mozzate, strangolamenti, un po’ di necrofilia… ma niente a che vedere con le aspettative create dalle favole del web. Senza andare troppo in là con il tempo, con Antichrist si è fatto decisamente di peggio. Il vero punto di forza del film è la credibilità di Jack: così disumano da essere compatito, il pubblico è rapito dal fascino del male nella forma che lo spettatore è in grado di capire meglio, quella del serial killer.
2 ore e mezza che scorrono benissimo, un viaggio nel antro più buio dell’anima dell’umanità tutt’altro che tronfio o pedante. La Casa di Jack fa un nuovo passo verso le grandi masse (che gradisco poco), ma è una delle più geniali prese per il culo di LVT ai suoi “nuovi fan”. Proprio lì, in quel finale Dantesco e onirico le carte vengono scoperte e il regista danese torna sé stesso sconvolgendo con il Cinema, l’artista e la sue opere. Autorialià ai suoi massimi livelli.
Il Jack in ognuno di noi
Fidatevi, le mie sono parole al vento. Un film di Von Trier va visto e vissuto sulla propria pelle. Affrontato in intimità, decantato e assaporato per tutti i suoi difetti e pregi. La Casa di Jack non credo possa essere il capolavoro di cui tutti parlano, ma è sicuramente un pezzo pregiato nella collezione di un artigiano sempre voglioso di mettersi in discussione e di esaltare il proprio credo. Anche a costo di svendersi un pochino e di sconvolgere meno.
Sappiate solo che dentro ognuno di noi si nasconde un piccolo Jack che non vede l’ora di piantare una coltellata nelle cervella di uno sconosciuto. A voi la scelta: liberarlo o conviverci per sempre.
Alla prossima Lars. Sempre tuo, Davide.