
La città incantata: il mondo secondo Hayao Miyazaki
La città incantata: il capolavoro di Miyazaki, un film surreale, onirico, coloratissimo, impossibile non amarlo.
Un’opera d’arte non necessariamente per bambini
È il 2003, è finalmente, alla cerimonia degli Oscar, tutto il mondo è d’accordo nel riconoscere il talento di Hayao Miyazaki: il disegnatore e regista giapponese, fondatore del leggendario Studio Ghibli, si porta a casa l’Oscar per il miglior film d’animazione con La città incantata.
E ci mancherebbe, viene subito da dire. Perché qui non siamo in casa Disney o Pixar, dove i capolavori (di capolavori si tratta, intendiamoci) si sfornano con un metodo quasi “industriale”: siamo in un territorio molto diverso, perché Miyazaki è un artista, e La città incantata è un’opera d’arte; come tale, il fatto che sia un cartone animato passa abbastanza in secondo piano.
La città incantata rappresenta il prodotto della mente visionaria di un disegnatore/narratore che, con questo film (come con gli altri del resto), ci dà una fotografia, un’istantanea del suo cervello.
Probabilmente, è attraverso questi disegni che Miyazaki ci vede, e vede il mondo che lo circonda. Se a questo si aggiunge quella particolare estetica giapponese, capace di rendere perfettamente “normale”, accettabile e credibile quasi qualsiasi cosa, si capisce bene come La città incantata sia molto lontana dall’essere una semplice favola per bambini.
Una fiaba tutta giapponese
L’impianto è quello, certo: la piccola Chihiro passa, con il pretesto di un trasloco, da un mondo perfettamente ordinario ad uno perfettamente straordinario, quello, appunto, della Città incantata. Ma attenzione, perché anche il pretesto è importante, ed è quello che rende la favola è la fantasia giapponesi così diversi da quelli occidentali, a cui noialtri siamo abituati. Le nostre fiabe cominciano già in un mondo fatato, chiaramente falso e irrealistico; nelle fiabe visuali di Miyazaki, come nei romanzi di Murakami, il confine tra reale e irreale è molto più sfumato.
Le porte per entrare nella Città incantata si trovano facilmente in un posto come un altro del mondo ordinario, di una qualunque città giapponese: e allora, forse, Miyazaki, Murakami e tutti gli altri vogliono solo farci capire quanto straordinario si possa trovare nell’ordinario. Se solo si ha voglia di vederlo.
Le cose non sono così per i genitori di Chihiro, due adulti medi noiosissimamente ordinari. Tutti soldi, trasloco, apparenza. E poi, cibo, cibo, cibo. Sono loro, inconsapevolmente, a mostrare per primi a Chihiro la città incantata, quando, essendosi persi, trovano questa sorta di villaggio costituito quasi solo da ristoranti. Molto semplicemente, i due si mettono a mangiare (senza chiedere il permesso), e non riescono più a fermarsi. Nel frattempo, Chihiro esplora lo strano luogo, e si affretta a cercare i suoi genitori quando ormai è troppo tardi: entrambi si sono trasformati in maiali, da allevamento e macello. A questo punto, è il tramonto: un’altra soglia classica tra mondo ordinario (il giorno) e mondo straordinario (notte). Ed è in questo momento che La città incantata si rivela a Chihiro in tutto il suo splendore e la sua ambiguità visionari.
Un caleidoscopio allegorico
Comincia così il viaggio di ri-formazione di Chihiro all’interno della città, per riprendersi il suo nome: esso le è stato portato via, infatti, dalla strega Yubaba, che gestisce il grande edificio delle terme dei mostri, quando la ragazzina è stata presa a lavorare lì.
Alle terme ci vanno gli spiriti, che tutte le notti arrivano (via barca) alla città incantata per purificarsi, loro che sono così continuamente sporchi di mondo.
Ma chi sono, o chi potrebbero almeno essere, gli spiriti? Da dove arrivano? Alcuni sono personificazioni, ad esempio, delle forze naturali (spiriti dei fiumi e così via), ma la maggior parte possono semplicemente rappresentare ex-esseri umani, che di umano non hanno più nulla, a parte una sorta di “corpo”.
In questo senso, La città incantata somiglia tanto ad una metafora della società attuale, viziata e condizionata dal consumismo. Siamo talmente “avanzati”, che non abbiamo niente di meglio da fare che spendere i nostri soldi in vizio e piaceri di una notte (diciamo che nel film sono terme perché la favola è anche per bambini… ma potrebbe benissimo essere un bordello). E questa regola vale sia per gli spiriti “clienti” delle terme, che per coloro che alle terme ci lavorano: anche i dipendenti di Yubaba, infatti, sono caratterizzati prima di tutto da superficialità ed avidità (pochissime le eccezioni, come Kamaji, l’addetto alle caldaie che fa da mentore a Chihiro), e si fanno fregare immediatamente dalle lusinghe e dalle manciate d’oro del Senzavolto, spirito malvagio (ma forse soltanto triste, solo e malinconico) che approfitta delle loro debolezze.
In questo scenario, per ritrovare il suo nome e per evitare che i suoi genitori/maiali vengano macellati e mangiati, Chihiro (ribattezzata Sen) potrà e dovrà affidarsi all’unica forza in grado di vincere la monotonia, la disperazione, la solitudine, la paura: la forza dell’amore, naturalmente.
La via di uscita
Ma, anche da questo punto di vista, Miyazaki si dimostra originale: non è affatto una “normale” storia d’amore, infatti, quella tra Chihiro e Haku, giovane mago allievo di Yubaba. Il ragazzo, che protegge e tiene lontana dai guai Chihiro fin dalla prima volta che la vede nella città incantata, e che si presenta come un giovane mago allievo di Yubaba, non è in realtà chi dice di essere. Non perché faccia il doppio gioco, non perché voglia ingannare Chihiro, ma perché, come Chihiro, non ricorda il suo nome. Anche lui, come Chihiro, incarna la bontà assoluta, che nella città incantata Miyazaki ci mostra assumere le forme dell’infanzia, della purezza più incontrastata, addirittura, in certi casi, dell’ingenuitá.
Solo fidandosi dell’istinto e delle sue emozioni (anche quelle negative, come la paura), Chihiro riuscirà a “dimenticare” il cibo, il portafogli, l’auto, il trasloco, e così via.
E questo è l’unico modo per non farsi “mangiare” dalla città incantata: non bisogna far finta che non esista, non bisogna affidarsi solo alla freddezza del cervello ed all’irrazionalitá “bestiale” dello stomaco.
La città incantata può essere ovunque: bisogna avere il coraggio di tenerle testa, per portarla per sempre dentro di sé.