
La crisi!: manuale di sopravvivenza al fascino (in)discreto della borghesia
È una mattina come tante quella che si appresta a passare Victor, brillante avvocato parigino, quantomeno all’apparenza: suona la sveglia, ci si stiracchia, si cerca con il braccio l’adorata mogliettina ancora addormentata al proprio fianco. Primo inghippo: la mogliettina in questione è sparita. I figli, tutto sommato abbastanza indifferenti alla faccenda, annunciano che se n’è andata, e che loro si apprestano a passare una settimana dalla nonna. Basterebbe un risveglio simile per far precipitare chiunque in una crisi, no?
Proprio questo è il titolo dell’opera di Coline Serreau del 1992: La crisi!. Una crisi profonda, devastante, totale, tanto che i traduttori italiani si sono sentiti in dovere di sottolinearne il pathos con un punto esclamativo, a dirla tutta abbastanza patetico. Comunque: i travagli di Victor, che ha il bel faccino estremamente francese ed estremamente avvocatesco di Vincent Lindon, non finiscono qui: il nostro sventurato eroe arriva al lavoro, tenta di sfogarsi con la segretaria, ma scopre di essere stato licenziato. A questo punto, se fossimo in America, il protagonista imbraccerebbe una doppietta e se ne andrebbe in giro a sparare allegramente a ogni malcapitato, un po’ come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia; però, siccome grazie al cielo siamo nel vecchio continente, Victor decide di parlare. E con chiunque gli capiti a tiro: amici, parenti, improbabili mogli di medici. E tuttavia tutti, dal primo all’ultimo, lo sommergono con i rispettivi problemi e non fanno neppure finta di ascoltarlo; tutti, fatta eccezione per Michou (Patrick Timsit), clochard sempliciotto, ma dotato di grande buon senso e di un cuore d’oro, attributi che sembrano ormai introvabili sulla piazza. Sarà anche grazie a lui che, per dirla in modo un po’ new age, La crisi! si trasformerà in opportunità, i monologhi in dialoghi, e una luminosa normalità tornerà a circondare Victor.
La crisi! è quanto ci si può aspettare da una tipica commedia francese di fine secolo: dolce-amara, autoironica, i cui veri protagonisti sono le nevrosi e le idiosincrasie dell’occidentale upper-middle class; un Woody Allen con la “r” moscia, insomma.
Michou è senza dubbio il fulcro dell’intera storia, che assume un ritmo quasi teatrale, soprattutto nella prima parte; in cui ognuno parla sopra agli altri nel migliore dei casi, e altrimenti nemmeno li vede. A tal proposito, tre sono le scene memorabili: la moglie del medico, agli inizi, che si ritrova a cacciare i pazienti fanatici dell’omeopatia non tanto per la sua dubbia efficacia, quanto perché una altrettanto fantomatica lallopatia li farebbe guadagnare parecchio di più; i figli adolescenti di una coppia che più gauche caviar di così non si può, che decidono di giocare ai ribelli di sinistra in una casa che di sinistra in fondo non lo è; e la stessa coppia che viene inconsapevolmente sbeffeggiata da Michou, ben più consapevole di loro di cosa significhi il razzismo – scena, quest’ultima, più efficace di qualsiasi analisi politica per spiegare come abbia fatto Marine Le Pen ad arrivare al ballottaggio un quarto di secolo dopo l’uscita de La crisi!.
Ritmo incalzante, dialoghi serrati, malinconia di fondo che comunque non riesce a velare le risate: tutto questo ha valso alla Serreau un César per la miglior sceneggiatura originale nel 1993, e tutto questo rende La crisi! un film molto europeo e molto attuale. Oltre che molto gustoso e irriverente; e del resto, quando una signora della buona borghesia si ritrova a sbraitare al grido di “Sono volgare? Chissenefrega!”, cos’altro potete aspettarvi?