
La forma dell’acqua è solo un’accozzaglia di accenni amalgamati male
Avete presente la scena di Homer al bar lesbo? Ecco, durante la visione di La forma dell’acqua io ero proprio Homer e, tutto intorno a me, sentivo come un vuoto caldo di gente entusiasta, sbrodolante, in folle adorazione per un film già osannato da qualsivoglia essere senziente sul globo terracqueo. Poi mi sono reso conto che, invece, ero un membro della Resistenza, pronto a far scattare la sua spada laser nell’internet prima di venire crivellato con i blaster dalle forze dell’Impero shapeofwatersiano.
(Se ne fate già parte, leggetevi pure la nostra recensione in brodo di giuggiole, nessuno vi giudicherà. Forse).
Il dramma è fondamentalmente uno: io volevo adorare La forma dell’acqua. Perché voglio un bene dell’anima a del Toro, amo il suo cinema e speravo di uscire dalla sala muto: le parole sarebbero state superflue. Invece qui c’è da usare le corde vocali per impiccarci le aspettative.
Perciò ultimo avviso ai naviganti: seguiranno spoilerz grossi, non c’è scampo.
Cominciamo subito con il macroproblema di La forma dell’acqua, che è già suggerito (involontariamente) dal titolo: non ha una vera e propria direzione. Tenta di adattarsi a tutti gli enormi contenitori che propone, lasciando però un fastidioso rumore di scolo, come un rantolo strozzato di qualcuno che vorrebbe dire qualcosa, ha tutti gli strumenti per farlo, ma poi alla fine emette solo un suono sgraziato e poco comprensibile.
Del Toro abbozza di tutto senza approfondire nulla, creando un accrocco di accenni amalgamati male: il mentore omosessuale che viene affossato nell’approccio (sapevate che gli omosessuali erano discriminati come oggi?); questo razzismo spicciolo gettato a casaccio senza capo né coda (sapevate che gli afroamericani erano discriminati come oggi?); gli Stati Uniti imperialisti brutti, sporchi e cattivi (sapevate che… vabbè, avete inteso); il mostro che è una specie di divinità (utile solo alla TELEFONATISSIMA apparizione finale delle branchie); la Guerra Fredda a far da sfondo, che però sfondo opaco rimane, se non quando serve, magicamente, alla trama.
È come se il caro Guglielmone avesse tentato di scattare una fotografia degli States odierni, lasciando però le dita sulla lente. McDonagh, gli insegni come si fa? Che poi del Toro lo sa benissimo, dato che La forma dell’acqua è una brutta copia slavata de Il labirinto del fauno o, se preferite, un E.T. dove alla fine Drew Barrymore si tromba l’alieno. Con questa splendida immagine vi regalo i prossimi mesi dallo psicologo, offro io.
E questo tragico problema di fondo si trascina dietro uno dei grandi temi di del Toro, affogandolo in una pozzanghera: il rapporto fiaba/realtà. La forma dell’acqua, non volendo scegliere, resta intrappolato a metà, troppo fiabesco a tratti per risultare verosimile (ma cercando di esserlo), troppo reale per aprirsi alla favola (nonostante voglia appartenere anche a quel mondo).
Eliza (Sally Hawkins) si masturba. Però sogna. È una outsider sfigata. Però ha amici che le vogliono bene. È muta. Anche il Mostro (Doug Jones) è muto. Perché non innamorarsi di lui? Ecco che il problema sgorga fuori fangoso: c’è troppo poco contatto fiabesco per potersi davvero innamorare (e lo sottolineo, innamorare) di un mostro. Un. Cazzo. Di. Mostro. La parte adesa al reale di La forma dell’acqua si incatena alla tua sospensione dell’incredulità, perché non possono bastare due fugaci contatti attraverso uno specchio e un uovo per innamorarti di un essere anfibio. Possono bastare per volerlo liberare dagli imperialisti cattivi (perché, sorpresa delle sorprese, sono proprio loro i veri mostri), ma non per volerci ballare il mambo orizzontale durante l’acquagym.
Lui non fa niente per rendersi piacevole a lei, Eliza invece ha già la forma mentis perfetta per volergli bene. Il suo personaggio è costruito (e agisce) solo in funzione del sentimento che andrà a creare con l’Abe Sapien sbrilluccicoso. Non c’è praticamente tensione tra i due, è tutto facile, scialbo, banale. La forma dell’acqua ha talmente tanto conflitto che lei ha i segni delle branchie a inizio film. È già tutto in discesa.
L’indecisione di La forma dell’acqua si riflette anche nello Strickland di Michael Shannon, che saltella sgraziatamente tra l’essere un cattivo credibile e un villain della Marvel. Fa il suo dovere torturando il mostro, poi tenta il monologo sulle caramelle (sopra ogni possibile riga), si strappa le dita (togliendosi l’ultimo brandello di umanità, in teoria), però poi tramortisce Giles (Richard Jenkins) invece di sparargli, come spara a Eliza e al mostro. Certo, altrimenti come faceva Giles a colpirlo di nuovo? Perché Strickland fondamentalmente non indaga: trova l’uovo ma non si chiede perché o come sia finito lì; ha sospetti ma li lascia perdere (tranne la magica illuminazione del “seguiamo il dottore”) e, quando finalmente gli viene detto chi è il colpevole, non si fionda a casa della muta che era stata molto più evasiva nell’interrogatorio, con tutto il giochino del “fottiti”, e che era sempre lì a pulire, ma va a casa di Zelda (Octavia Spencer) dando così il tempo a Eliza di andare al porto. Eliza che, ovviamente, ha scritto grande e grosso sul calendario “PIOGGIA/PORTO, SIAMO QUI, TROVACI”.
Ma cosa pretendiamo? Strickland (che, ricordiamolo, è un colonnello badass che ha catturato il Mostro in Amazzonia, non un inviato di Alle falde del Kilimangiaro) scopre dove si trova la Creatura dal Dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg). Dottore che, per salvarla, ha ingannato il suo Paese, la cazzo di Russia della Guerra Fredda, rischiando di finire in qualche albergo staliniano per il resto della sua vita, però poi quando è a un soffio dalla morte rivela a Strickland la verità. Molto coerente.
E più ci si addentra nella sceneggiatura più il macroproblema dell’accozzaglia di roba spurga fuori: tutto il discorso della Cadillac era una gag riuscita male?; il cinema invece? Qual è la funzione del cinema nell’economia de La forma dell’acqua? Non ditemi l’omaggio al muto/sonoro perché per quello bastava la tv; e poi, gente, la scena del ballo è semplicemente trash, non esistono altri modi per definirla. Ah, già, c’è pure il messaggio spicciolo del “non fidarti mai di un uomo” perché ha un pene retrattile pronto a trasformarlo nello zio Harvey da un momento all’altro. Il che ci può anche stare eh, detto dai personaggi di Eliza e Zelda. Però poi facciamo sesso con i pesci che staccano la testa ai gatti, quello è coerente e ci si ride su che manco in Sex and the City. Perché il diverso è normale, e sbaglia chi dice il contrario. Vero, peccato che sia, di nuovo, tutto così costruito male che risulta solamente ridicolo. Giles che apre la porta del bagno e la richiude: “brava figlia mia, approvo il tuo nuovo ragazzo, per il prom ho affittato questa, va bene?”.
La forma dell’acqua semplicemente non funziona. Stride in ogni suo aspetto, come uno scalatore che circumnaviga la montagna senza mai salire in cima. Una montagna anche ben imbellettata, ma inutile se i temi trattati sono solo bozze di acquerelli. Del Toro ha smangiucchiato un po’ Jeunet, un po’ Burton e un po’ il Necronomicon di Alan Moore, ibridandoli male, proprio come un Mostro della laguna che nell’economia del film è solo un pretesto per tentare lo sblocco emotivo dello spettatore, al quale, dopo l’ennesima forzatura, resta solo lo sbocco. E poi c’è chi si lamenta per il sesso con una pesca.
Perciò, voi che state già cercando l’indirizzo di casa per affogarmi nel cesso, non preoccupatevi, l’Academy adorerà La forma dell’acqua: è un film politico senza rischi che, parlando un po’ di tutto, alla fin fine non riesce a dire proprio niente.