
La gang dei doberman: cinofilia dimenticata (giustamente)
Chiariamolo subito: l’unica cosa degna di menzione di questo film coi doberman è la canzone Someone composta da Bradford Craig e soprattutto Alan Silvestri, che esordisce così nelle colonne sonore.
Canzone che tra l’altro, non so perché, da subito me ne ha ricordata un’altra, a me molto cara.
Questo, comunque, c’entra poco.
Per il resto, si capisce già dopo poche immagini che non c’era alcun bisogno di vedere questo filmetto del 1972, oggi perfetto per un incontro casuale da zapping notturno nei canali dopo il 9, tra Alvaro Vitali e una televendita. Probabilmente non la penserà così chi lo vide all’epoca, lasciandosi oggi convincere alla rivalutazione dalle palpebre troppo umide per la nostalgia. Non è il nostro caso.
“L’errore nasce sempre dal fattore umano e l’ultima volta mi è costato cinque anni” si lamenta Eddie (Byron Mabe) (proprio lui!), dopo una rapina svoltasi con qualche intoppo per scarsa professionalità sua e dei suoi due compari, uno dei quali (Simmy Bow) ha questa faccia:
E allora, per andare sul sicuro, senti che ti combina l’Eddie (Byron Mabe. Scherzavo, mai visto né sentito): una sera vede tre doberman che riescono a far arrestare dei ladri di auto e rimane folgorato. Allora si procura un bulldog e sei doberman (razza di cui ha appena scoperto l’esistenza) e un addestratore di cani lupo per l’aviazione, o meglio, un trainer (più volte pronunciato, nell’edizione italiana, esattamente com’è scritto) e insieme a loro, alla sua nuova ragazza e ai due complici organizza il colpo della vita. A effettuarlo dovranno essere proprio i doberman, addestrati a lungo (troppo a lungo, la prima ora del film) ad eseguire specifici compiti: controllare le uscite della banca, tenere a bada clienti e funzionari, reggere in bocca il biglietto con scritto “Questa è una rapina” e ritornare al nascondiglio col malloppo. Tutto questo grazie a dei fischietti ad ultrasuoni e dopo essere stati ribattezzati con nomi di una certa importanza: Dillinger, Bonnie, Clyde, Baby Face Nelson, Pretty Boy Floyd e Ma Barker.
Nel mucchio di film con i cani, quello di Chudnow (regista di una manciata di cose) s’inserisce sfruttando pochissimo il lato divertente dell’idea. Anzi, diciamo che tutto è preso molto seriamente. Qualche traccia d’ironia c’è (il bulldog che durante l’addestramento sfigura di fronte ai prestanti doberman) e certe musiche in sottofondo sembrerebbero voler suggerire un tono da commedia scanzonata; in realtà la sceneggiatura opta per un’altra via: trascinare la trama piuttosto noiosamente, impantanandosi quasi subito nel disinteresse di chi guarda. Diretto blandamente e basato essenzialmente sull’unica idea di base – probabilmente originale e di successo allora, dato il seguito realizzato l’anno successivo – che però mostra oggi quanto la sua infallibilità fosse solo presunta, rivelandosi troppo poco elaborata per essere tradotta in qualcosa di coinvolgente. Sarebbe stato più duraturo con qualche colpo di reni della scrittura che rimediasse a questa povertà d’insieme, ma la cosa non sembra importasse molto agli autori.
Dopo un’ora di noia diffusa e dialoghi meccanici, si resiste a tenere gli occhi aperti in attesa del momento in cui dalla teoria si dovrà passare ai fatti, ossia gli ultimi minuti dopo un’ora di addestramento cani, ma anche allora non c’è nulla in grado di rendere memorabile la faccenda. Accade quello che ci si aspettava: doberman che ringhiano, mordono, corrono con i soldi nelle buste ecc. Persino Chudnow sembra accorgersi a un certo punto di quanto scarsi siano gli attori che si è scelto, puntando più sui cani e sulla loro destrezza e eleganza fisica (corse in ralenti). Il finale con (piccolo) colpo di scena non riesce a stupire neanche se stesso, confermando la fiacchezza di tutta la baracca.
Ci si può accontentare, ma non ne vale la pena.