
La gatta sul tetto che scotta: attenta Maggie, ti si vedono gli artigli!
Oggi voglio vincere facile, quindi vi propongo un must per ogni cinefilo: La gatta sul tetto che scotta (1958), interpretato da due paia d’occhi straordinari, ovvero i viola di Elizabeth Taylor e quelli blu zaffiro di Paul Newman, diretti da Richard Brooks.
Per chi si sta affezionando a mia madre e alla sua (benefica) prepotenza cinematografica, sì, anche questo film me l’ha propinato lei. Che volete farci, lo shopping ci piace fino ad un certo punto…
Trama
Mississippi: la famiglia Pollitt si riunisce per festeggiare il compleanno di Big Daddy (Burl Ives), a cui è stato appena diagnosticato, a sua insaputa, un cancro incurabile. Alla magione giungono i figli, Cooper (Jack Carson) e Brick (Newman), con le rispettive consorti, Mae e Maggie, detta la Gatta (Taylor).
Brick e Maggie sono in crisi da tempo; lui, ex giocatore di football, zoppica per una caduta, beve come una spugna, e soprattutto si nega tenacemente alla moglie, disperata per la mancanza di un figlio, cosa di cui è invece ben fornito il cognato, che punta all’eredità paterna.
Big Daddy tenta di capire il perché della depressione di Brick: dopo una grossa lite, il giovane ammette di incolparsi del suicidio del compagno di squadra Skipper; quest’ultimo e Maggie hanno avuto un fugace affaire, che ella non nega, ma sostiene Skipper l’abbia corteggiata solo per distruggere il matrimonio, che ostacolava il rapporto morboso tra i due uomini: ritenutosi messo da parte in favore della Gatta, Skipper si uccide.
In questo marasma emotivo e familiare, Big Daddy viene messo al corrente del suo stato di salute: questo lo porta a confrontarsi con i parenti e a rivelazioni inaspettate…
La censura
Un po’ di dietrologia: il film è basato sull’omonima pièce di Tennesse Williams, drammaturgo molto amato dal cinema, che dai suoi lavori ha tratto alcuni lungometraggi indimenticabili (uno su tutti, Un tram che si chiama Desiderio, con Marlon Brando e Vivien Leigh).
Temi caratterizzanti dell’opera di Williams, fortemente autobiografici, sono essenzialmente tre: la follia, il conflitto familiare e l’omosessualità. Quest’ultimo è il più scottante, specie per l’epoca: Williams è stato spesso oggetto di censura, così come i film tratti dai suoi drammi, che dovevano sottostare alle regole per la “salvaguardia della morale” del Codice Hays.
Il punto centrale de La gatta sul tetto che scotta, ovvero l’omosessualità latente di Brick e il dolore per la morte di Skipper, nella versione cinematografica vengono mascherati da un senso di delusione per il crollo di un mito nel vederlo provarci con la moglie, e il rifiuto verso quest’ultima come una punizione per la sua condotta, atta a nascondere la mancanza di attrazione sessuale nei suoi confronti.
Questi accorgimenti provocano una certa debolezza nella trama, in quanto lo spettatore non è pienamente soddisfatto dalle motivazioni addotte per spiegare l’alcolismo del protagonista e la crisi coniugale; il lieto fine arriva ma viene da chiedersi quanto sia veritiero, e se l’ipocrisia contro cui Brick sproloquia durante tutta la messa in scena non abbia vinto ancora una volta.
Una coppia
Nonostante i problemi di cui sopra, legati più alla politica che alla regia, la vera forza del film sono Paul Newman e Elizabeth Taylor, peraltro sostenuti da un ottimo cast, soprattutto Burl Ives, rozzo e primitivo quanto basta.
È un Newman distante dal simpatico imbroglione de La stangata, ma anche da altri suoi personaggi più tormentati: qui vince il campionato della rabbia e del dolore, espressi più spesso con battute amare e sorrisi sardonici (e da un bel bicchierozzo di whiskey) che con urla, anche se sembra sempre una bomba sul punto di esplodere. Fastidiosamente bello, dice Maggie, e chi può darle torto. E crudele anche, nel suo supplizio interiore.
Crudele verso Liz Taylor che «come una gatta sul tetto di lamiera rovente, che non sa dove saltare», attraversa un campo minato emotivo, perché ama follemente il marito e ne intuisce il tormento, incolpando Skipper sì, ma anche se stessa.
Avida di denaro ma soprattutto d’amore, Taylor strilla e sgrana gli occhioni, si scontra con quel vulcano di ghiaccio che è Newman, si vede etichettata bella e sterile dalla famiglia del marito, e lotta contro un fantasma, quello Skipper che anche da morto le sottrae l’affetto di Brick.
I dialoghi tra i due protagonisti sono forti, drammaticamente ironici e pieni di pathos, senza per questo scadere nello strappalacrime: non si piange ma si soffre con loro.
Oltre a Big Daddy, voglio soffermarmi un attimo su Cooper, il figlio obbediente e per questo destinato al dimenticatoio: affamato di denaro ma anche delle attenzioni del padre, che gli ha sempre preferito il fratello minore, più complicato e affascinante. Sposato ad una megera, ne è succube ma nel corso del film diventa intraprende un’evoluzione positiva, perdendo il ruolo di antagonista.
In conclusione: ottimo cast, regia brillante con il merito di aver preservato l’atmosfera teatrale dell’opera, pur apportando modifiche non da poco (ma giustificabili), dialoghi intensi, riflessioni filosofiche affrontate senza che ci venga voglia di tagliarci le vene.
GRAZIE MAMMA!