Film

La grande scommessa

Se vi aspettate che cominci la recensione paragonando La grande scommessa a qualche antecedente rimarrete delusi, perché quello di Adam McKay è un film che vive di trovate mai (o quasi) viste, un film che vuole essere originale a tutti i costi e che fa di tutto per fartelo notare.

Cominciamo col dire che fa parecchio ridere, ma teniamo bene a mente che la storia verte tutta sulla crisi delle banche; possiamo continuare dicendo che è ambientato negli uffici di Wall Street e non su uno yacht o un villone da urlo, perché La grande scommessa non sa che farsene di Scorsese e del suo lupo di Wall Street. Non dimentichiamoci che nessun tecnicismo ci verrà risparmiato, che le nostre orecchie innocenti saranno violentate da una marmaglia di ostrogotiche sigle da broker, eppure il film ci piacerà, eccome se ci piacerà!

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Digerito il boccone bisogna dire che il regista di Philadelphia (già noto per gli Anchorman con Will Ferrell) ha il gran merito di costruire fin da subito un rapporto privilegiato con lo spettatore, architettando un film dal sapore documentaristico che ricorda il Woody Allen degli esordi (Prendi i soldi e scappa), che mostra gli avvenimenti romanzandoli – come ammettono candidamente gli stessi personaggi – e usando il tatto di un elefante in cristalleria:  ciò che emerge dalla visione sono uno sdegno e una sensazione di tradimento che non sono suscitati dal classico drammone stracciapoltrone di sinistra, ma dal sorriso e dalla faccia di gesso degli sciacalli che ci vengono mostrati.

Non c’è nessun Patrick Bateman (American Psycho) o Gordon Gekko dalle parti de La grande scommessa, forse perché McKay può permettersi di fare marameo anche a Bret Easton Ellis e Oliver Stone, tirando dritto per la sua strada lastricata di trovate geniali – come già detto – prima tra tutte quella di allestire un cast stellare, ma di non farlo interagire, anzi, sparpagliando varie storyline che viaggiano in parallelo.

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Nell’ordine abbiamo due coprotagonisti (Christian Bale e Steve Carell), una voce narrante/personaggio (Ryan Gosling) e altri personaggi secondari (tra cui un risicato, ma sempre ottimo Brad Pitt).

Curioso come Bale e Carell giochino alla “staffetta”, con l’irriconoscibile ex Cavaliere Oscuro a cui viene affidata la prima metà del film, mentre il sanguigno Carell rumoreggia e sgomita fino a prendersi gli onori del palcoscenico durante la seconda.

«Va bene, sai una cosa? Sono una persona cattiva e sono arrabbiato! Tu non hai idea di che razza di cose stanno facendo! E la gente va in giro come se fosse in un video di Enya! Rimarranno tutti fregati, e lo sai?! Tu lo sai di che cosa si preoccupano? Del baseball! O di quale attrice sta in clinica a disintossicarsi!»

La storia è semplice: nel 2005 un gruppo di operatori finanziari di vario livello scopre (in modi differenti) che l’apparentemente solido mercato immobiliare americano poggia su mutui ad alto rischio; rendendosi conto che dalla situazione si possono trarre profitti milionari, cominciano a scommettere sul crollo del sistema, approfittando del fatto che nessuno oltre a loro avrebbe saputo dell’imminente disastro.

McKay gioca con i suoi personaggi, non limitandosi a prendere il polso della Wall Street di pochi anni fa, ma restituendocene la visione dall’interno e lo fa muovendosi sui binari giusti: un linguaggio iper-tecnico, pochi dilemmi morali, tanto realismo, facce di bronzo e yuppismo che sprizza da tutti i pori.

A poco a poco però le risate iniziali si fanno più rade e lo spettatore sente che il divertimento viene meno e gli stessi personaggi in scena gli fanno capire che quello per cui lui sta ridendo (e quello che loro stessi fanno per portare a casa il malloppo) è costato il futuro di milioni di persone, e che la grande scommessa è quella di uscirne puliti dentro, più che fuori.

Il regista dà corpo così a un film straniante, che ti fa ridere con la testa, ma non con la pancia, perché ti vuole ricordare il prezzo che hanno le tue risate. Alla fine di tutto non c’è catarsi, ma non per nichilistiche convinzioni del regista/sceneggiatore, ma perché la catarsi a Wall Street non esiste: esistono solo buoni investimenti che a volte possono avere un prezzo molto caro, e non solo per i portafogli degli altri

«Daranno la colpa agli immigrati e ai poveri».

Federico Asborno

L'Asborno nasce nel 1991; le sue occupazioni principali sono scrivere, leggere, divorare film, serie, distrarsi e soprattutto parlare di sé in terza persona. La sua vera passione è un'altra però, ed è dare la sua opinione, soprattutto quando non è richiesta. Se stai leggendo accresci il suo ego, sappilo.
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