Xavier Dolan è uno dei registi più interessanti e iconici di oggi, forse il miglior rappresentate della Nouvelle Vague francese dopo
Wong Kar-wai e uno dei migliori enfant prodige dai tempi di
Orson Welles. Siamo sempre stati meravigliati dai suoi film perché erano estremamente personali, intimi, autobiografici. E la qualità continuava a salire, lo stile era sempre più maturo, la regia sempre più sapiente. Nei suoi film tornavano sempre dei temi ricorrenti, fra cui l’omosessualità, il rapporto con la madre, la dipendenza da droghe. E noi siamo sempre stati catturati da questa sua voglia di raccontare delle storie che andassero a toccare le corde più intime dell’inconscio. Allora ci si chiede: cosa è successo con con
La mia vita con John F. Donovan?

La trama
La mia vita con John F. Donovan inizia in un lussuoso hotel di Praga: la giornalista Audrey Newhouse e lo scrittore Rupert Turner s’incontrano per un’intervista incentrata sull’ultimo libro del giovane scrittore. Questo libro è il frutto di una lunga corrispondenza epistolare fra Rupert stesso e il defunto attore John F. Donovan. Questa intervista fa da cornice e da commento a tutta la vicenda personale che lega Rupert e John F. Donovan, accaduta qualche anno prima. Quindi tutta la vicenda è raccontata in forma di flashback. Attraverso due linee narrative diverse, legate dalla corrispondenza epistolare fra i due personaggi, veniamo quindi immersi nella vita di Rupert, un bambino inglese che studia recitazione e contemporaneamente nella vita di John F. Donovan, un attore americano all’apice del suo successo. A causa di questa corrispondenza epistolare e di una relazione omosessuale, però, John F. Donovan finirà vittima di uno scandalo mediatico. L’attore si ritirerà dalle scene e poi, solo e dimenticato, si toglierà la vita.
La sceneggiatura
Partiamo dalla cornice narrativa. L’intervista fra Rupert e Audrey è assolutamente inutile dal punto di vista narrativo: non solo appesantisce il ritmo del racconto, ma non permette alla storia di proseguire; senza provocare un turning point alla narrazione, fa da commento a quanto accaduto, col risultato di aumentare le parti dialogiche del film.
Parlando invece del racconto in sé, si nota con un certo dispiacere che tutti i personaggi del film sono caratterizzati in modo molto superficiale, a partire dallo stesso John F. Donovan. Il bell’attore americano ha tutto: soldi, successo, fama, potere, ma ha un tremendo segreto: è gay… e quindi? Cosa c’è di male? Perché dovrebbe essere un problema essere gay nella New York del 2017? Forse per un dissidio interiore? Forse per un cattivo rapporto con la famiglia? Non si sa, non ci viene spiegato perché John voglia nascondere di essere gay, tuttavia sappiamo che questa cosa gli crea un tremendo travaglio interiore, tanto che assume farmaci e ha degli scatti d’ira.
Dall’altra parte abbiamo Rupert, un giovane enfant prodige che oltre a recitare ed essere geniale, si diverte a criticare la vita di familiari e amici ritenendosi superiore a chiunque. Il personaggio di Rupert è incredibilmente altalenante. Infatti, ascoltando i discorsi del bambino, non si capisce quanti anni potrebbe avere. A volte si esprime effettivamente come un ragazzo della sua età, mentre altre volte parla con una maturità e una proprietà di linguaggio di un uomo di 40 anni. Il suo rapporto con la madre non è poi molto approfondito così come il rapporto con il padre e con John F. Donovan.
Mi è dispiaciuto molto poi che non fosse chiaro fino in fondo il legame fra John e Rupert, che fa da motore a tutta la vicenda: non si capisce se queste persone siano legate da un’amicizia intellettuale o se ci sia una qualche carica sessuale fra i due. Perché questi due si scrivono? Come si sono conosciuti? Perché a un certo punto John decide di smettere di inviare lettere e negare tutta la corrispondenza? Perché scoppia uno scandalo? Se fosse solo un’amicizia intellettuale non avrebbe motivo di troncare il rapporto; viceversa se ci fosse qualcosa di davvero scandaloso nella corrispondenza fra i due, non sarebbe stato più giustificato, ma la sceneggiatura non rivela alcun dettaglio.
Ancora più deludente è poi la fine di John. A seguito dello scandalo, John va in depressione e diventa irascibile; malmena un tecnico sul set e viene querelato. Dopo processi, tribunali e avvocati, si ritrova solo, odiato da tutti e senza più soldi. Decide di andarsene dallo star sistem e ritorna dalla famiglia. Qui ritrova i veri valori di un tempo e i veri sentimenti. Riappacificato con tutti, si suicida… ma perché? Perché si dovrebbe uccidere? Il suicidio dell’attore era già stato anticipato nei primi minuti del film attraverso una prolessi e questa morte annunciata creava una certa aspettativa nello spettatore. Tale aspettativa però è stata completamente smentita alla fine perché non si capisce da cosa questa morte sia stata effettivamente provocata; dunque la sua morte risulta totalmente ingiustificata.
Recitazione
E qui parafrasando un grande critico, arrivano le note DOLANnti… Per quanto mi riguarda non sono un fan dell’over acting, ma ci sono certe situazioni in cui è indispensabile. In film di stampo teatrale come Carnage di Roman Polanski, in cui ci sono quattro attori in una stanza che diventano sempre più rabbiosi, annichiliti e frustrati, l’overacting è una naturale evoluzione di un crescendo di emozioni. In quel caso la sceneggiatura aiuta gli attori a dare il massimo delle loro prestazioni. Ne La mia vita con John F. Donovan, invece, la sceneggiatura, che è il punto debole del film, non aiuta gli attori, ma anzi li costringe a recitare in modo eccessivo.
Tutti i personaggi, come dicevo, sono incredibilmente stereotipati e senza un effettivo background. La sceneggiatura e i dialoghi poi sono molto artefatti e stereotipati. Perciò per dare un senso alle parole dei protagonisti e alle loro sensazioni, gli attori sono costretti a esagerare gesti, atteggiamenti, smorfie. Dato che non c’è una vera e propria motivazione dietro le loro azioni, i personaggi parlano e agiscono in modo assolutamente innaturale. Urli, pugni nei muri, aggressioni fisiche e verbali. È molto triste vedere poi attori del calibro di Kathy Bates e Susan Sarandon fare delle parti marginali, mal scritte e mal recitate, che nella trama non hanno la benché minima incisività.
Anche se bisogna dire che la parte più inutile di tutte è quella di
Michael Gambon. All’apice della depressione, infatti, John è seduto in una stanza a riflettere, quando di colpo appare Michael Gambon. Nella veste di Deus ex machina, l’ex Silente, per tirare fuori John da tutti i suoi guai, con sguardo in camera, musica malinconica e voce profonda, dice la frase più iconica di tutto il film.
Io penso che le cose siano semplici, siamo noi a complicarle
La frase, che dovrebbe commuovere ed emozionare per la sua profondità, è così artefatta e anticipata, che è difficile apprezzare la forza del messaggio che comunica.

Comparto tecnico
Dal punto di vista visivo, La mia vita con John F. Donovan è esente da critiche. La fotografia, nel pieno stile di Dolan, è di altissimo livello. Tuttavia, meravigliarsi del fatto che un film, costato milioni di dollari, abbia una bella fotografia è ridicolo: con un budget come quello che ha percepito il film, è naturale pensare che gran parte dei soldi a disposizione siano stati impiegati nelle attrezzature. Le musiche invece sono molto inadeguate. Molto spesso infatti le musiche sono talmente drammatiche e onnipresenti da sovrastare le parole degli attori e aggiungono ancora più pathos a una recitazione fin troppo ridondante. L’eccessiva presenza della musica perciò priva lo spettatore di qualsiasi possibilità di immedesimarsi nella vicenda e non aiuta nemmeno gli attori a edulcorare la loro presenza sulla scena.

Conclusione
Per concludere allora verrebbe da chiedersi: come potremmo definire questa nuova fallimentare impresa di Xavier Dolan? Ripensandoci, c’è un antecedente nella storia del cinema che potrebbe essere paragonato a La mia vita con John F. Donovan. E questo antecedente è proprio italiano. Pensiamoci un attimo: trama inconcludente, recitazione teatrale e ridondante, varie linee narrative che si perdono nel nulla, personaggi stereotipati, musiche onnipresenti e martellanti, drammi da soap opera… Non parliamo forse degli Occhi del Cuore di Boris?