Film

La mia vita da Zucchina – delicatezza per raccontare l’abbandono

Certo che questi francesi non hanno paura di niente. Né di lavorare più di un anno per produrre sessanta minuti di film (con una media di quattro secondi al giorno), né di presentare una storia come quella di La mia vita da Zucchina.

Una storia spietata e senza fronzoli

Un bambino che fa volare un aquilone. Una scena vista tante volte, che riconosciamo e che ci rassicura, che ci fa pensare a cose belle. Così comincia La mia vita da Zucchina, il primo lungometraggio d’animazione di Claude Barras. Ma questo effetto dura pochissimo, e anzi ci prepara a un continuo fulminante, facendoci subito capire che quello che stiamo vedendo sarà tutt’altro che un film spensierato.

Icare, il bambino che fa volare l’aquilone, non è all’aperto, tanto per cominciare. È alla finestra di una soffitta, una soffitta dove si vede una torre costruita con lattine di birra vuote. Sull’aquilone ci sono due disegni, sembrano un supereroe e una gallina, poi scopriremo che si tratta del padre di Icare e di una delle sue “pollastrelle” (in francese, un generico termine per “prostitute”), con cui un giorno è definitivamente volato via. La madre di Icare, ubriaca e rabbiosa dopo aver litigato al telefono con un uomo che a quanto pare non la ama più, sale per picchiare il bambino, che inavvertitamente ha fatto cadere una delle lattine. È qui che scopriamo che la madre lo chiama “Zucchina”: un nomignolo che ha il preciso significato di “testa vuota”, ma che a noi suona carino e affettuoso – e, vedremo poi, anche a Icare, che da quel momento vorrà essere chiamato sempre così.

Icare si spaventa, chiude la botola della soffitta, la madre cade.

Accade tutto in un lampo, neanche il tempo di realizzare cos’è successo che ci ritroviamo in una stanza spoglia dove un poliziotto sta facendo l’interrogatorio a Icare-Zucchina.

“Era gentile con te, la tua mamma?”
“Beveva parecchia birra…ma faceva anche un buon purè.”

È chiaro, non siamo davanti a Bambi o Simba che perdono i genitori. Non siamo proprio davanti alla Disney. Siamo forse davanti a quello che erano le fiabe prima che la Disney le zuccherasse con il suo marchio di fabbrica – la magia. La mia vita da Zucchina non ha niente di magico, è tutto reale, o meglio, verosimile. Ci sono cose dure, raccontate senza peli sulla lingua. Di fatto, pur non mostrando niente, questo film non perde mai quel velo di malinconia grazie al quale lo spettatore sa che queste storie hanno tutte le ragioni per esistere, e, da qualche parte, esistono davvero. Va detto, comunque, che non è un film studiato per far piangere, ed è questa la sua vera forza: non si hanno mai sensazioni di pesantezza o angoscia, non si vuole insegnare né criticare niente, e ovviamente ci sono molti momenti che fanno ridere e finiscono con lo stemperare la tensione (domande sul sesso da bambini di neanche dieci anni, immaginate cosa può saltare fuori).

Personaggi che sembrano usciti dalla peggior slum di Dickens

Chi ha visto Nightmare Before Christmas, La sposa cadavere, Frankenweenie e altre animazioni di Tim Burton lo noterà subito: l’estetica è quella. I personaggi, Icare soprattutto, sono costruiti con il rovesciamento di quella cosa pruriginosa e leziosa che da un po’ (tanto) va per la maggiore: l’equazione “testa grossa e occhi grossi = ommioddio che personaggio dolce e carino ed espressivo!”. Qui gli occhi grossi sono incassati nelle teste grosse e cerchiati di blu, di grigio, di marrone, i bambini protagonisti danno l’idea di paffuto solo fino a un certo punto, e la loro espressività va oltre questi occhi tondi.

Tutti sono ben caratterizzati, sia fisicamente che nel comportamento, e possiamo vedere in continuazione le manie, i tic e le particolarità di ognuno di loro, che in alcuni casi rasentano l’ocd. Nonostante le loro storie di abbandono, morte, pedofilia, madri rimpatriate, padri omicidi, genitori drogati o in carcere, questi piccoli figli di nessuno alla Dickens non possono che starci tremendamente simpatici.

Camille, di cui Icare si innamorerà (oh, un po’ di ammmore ci sta sempre bene, specialmente qui) è rappresentata come una bambina normalissima, e con mia immensa gioia non è biondina-occhi-azzurri. Il personaggio di Simon poi ricorda un Vincent Cassel in miniatura, e non sarebbe strano se da un momento all’altro urlasse la haine est sainte! brandendo una forchetta.

Uno stop motion che va oltre

Lo stop motion, o lo ami o lo odi. Nel caso di La mia vita da Zucchina è stato probabilmente la scelta migliore: tutto un altro mondo rispetto alla velocità dell’animazione a cui siamo abituati, le lunghe (e a volte anche lente) sequenze riescono ad avere un’aura raffinata e incantata proprio grazie alla successione di fotogrammi e fotogrammi e ancora fotogrammi. Non solo, lo stop motion conferisce alla storia e ai personaggi un’inaspettata dinamicità e rende tutto empatico senza mai cadere nel melenso (vi giuro, io proprio non lo so come facciano dei pupazzi di plastilina e schiuma espansa a essere dinamici ed empatici, ma questi lo sono).

Per girare La mia vita da Zucchina ci sono voluti otto mesi di riprese, sei di postproduzione, 62 scenografie, 53 pupazzi, e soprattutto una pazienza e una dedizione infinite. Tutto questo per un’ora di film, che sembra pochissimo, ma – provare per credere – non lo è affatto.

Un lieto fine? In parte

Quello di La mia vita da Zucchina è un finale dolceamaro. Anzi, sarebbe meglio dire che non è il finale di questa storia, ma l’inizio di un’altra. È il trionfo dell’amore malinconico. Ma la domanda che viene più spontanea, quella che sorge subito, è un’altra, sempre la stessa: sarà adatto ai bambini? Io credo di sì. È adatto a quei bambini che fanno domande sapendo che qualcuno non avrà paura di rispondere.

 

Lucia Baldassarri

La mia data di nascita è il primo pezzetto della tabellina del 3. Campo di grammar nazismo in più lingue, teatro amatoriale, tè e altre splendide cose che non fanno curriculum. Finché non mi crasha photoshop faccio anche l'illustratrice. Se esistesse un posto con i tramonti del Lago Trasimeno e le porte di Bologna, abiterei lì. Guardo film per poter dire che vabè comunque il libro era meglio.
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