Film

La Passione di Cristo: il kolossal che divide

«Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità; per le sue piaghe siamo stati guariti.»

(Isaia 53, 700 a.C)

Chi si accinge a visionare per la prima volta La Passione di Cristo, terzo film da regista di Mel Gibson subito successivo a quel Braveheart per il quale nel 1995 vinse un Oscar, farebbe bene a dimenticarsi le classiche fiction pasquali sul Messia. Ispirata liberamente ai Vangeli e incentrata sulle ultime dodici ore della vita di Cristo (il Jim Caviezel di Person of Interest, per capirci), l’opera di Gibson è un film visivamente durissimo e ostico, che punta la sua lente d’ingrandimento più sulla natura umana di questa discussa figura nel panorama storico/religioso che su quella divina, in una maniera non dissimile da quella con cui Martin Scorsese diresse il bellissimo e sottovalutato L’ultima tentazione di Cristo. Entrambe le figurae christi cinematografiche citate si trasfigurano davanti ai nostri occhi nella loro essenza più spoglia e terrena; ma laddove Scorsese si concentrava specialmente sulle debolezze più introspettive e sulle contraddizioni spirituali, Gibson prende in esame l’Uomo come essere di carne e sangue.

Il cinema di solito, quando si tratta di imponenti trasposizioni bibliche, ha la licenza di permettersi l’assurdo; Mel Gibson invece intraprende una strada personalissima e la porta avanti con coerenza fino all’ultima inquadratura. La sua Passione intimorisce; il linguaggio (Aramaico e Latino) pone lo spettatore dinanzi a una realtà remota di secoli. La scena d’apertura ci accoglie in un contesto di sacralità: vi sono la sagoma di Cristo, l’oscurità e gli ulivi. Poi tutto ciò viene interrotto dagli esiti della Storia, assistiamo al calvario del protagonista, e quello che vediamo lo proviamo sulla nostra stessa pelle. Il film cambia volto e diventa iperrealista (non mancano però delle licenze sovrannaturali come la presenza di Satana o delle visioni demoniache di Giuda) e straziante. Gesù è solo un uomo e quella croce è pesante come un macigno, il dolore è reale e Dio rimane in disparte. Lo spettatore ha accesso a un solo piano, tutto terreno e tangibile, e si sentirà immensamente a disagio. La chiave di lettura del film è il racconto degli eventi che avvennero nelle aride colline di Gerusalemme (ricreate in ambienti nostrani per questioni di budget) dell’Impero Romano, questo è quanto. Quel giorno non si compì il volere di Dio (o magari sì, se credenti), ma fu per prima cosa un giorno di sangue e lacrime.

Gibson ci fa trasalire, ci lascia sconvolti e impotenti di fronte ad uno spettacolo di bestiale brutalità. Il film si compone di oltre novanta minuti di torture, intrammezzati da mezz’ora di flashback che ricostruiscono filologicamente eventi antecedenti alla Passione per farci digerire l’acerbo contenuto della pellicola, nonostante le scene di violenza restino ben impresse nello spettatore. Forse gli unici difetti di cui si può accusare il regista sono il rallentamento di ritmo in alcune sezioni e il non aver dato il giusto background ai personaggi, sebbene le vicende narrate siano arcinote. Tuttavia Gibson dimostra un’abilità registica di altissimo livello: gestisce l’ampia galleria di personaggi (promossi con lode tutti gli attori, da Caviezel alla diabolica Rosalinda Celentano), fondamentali per la vicenda o semplici comparsate, caratterizzandoli nella loro umanità o nella loro crudeltà in modo furbescamente semplicistico ma efficace; e firma una mezza dozzina di scene da antologia (su tutte quella della lacrima che cade dal cielo), facendo di La Passione di Cristo un vero capolavoro.

Accompagnata all’uscita in sala da cocenti polemiche, questa terza fatica dell’attore/regista ha funto da provocatorio messaggio teologico che è stato in grado di rafforzare la fede di molti credenti. Ovviamente non sono mancati nemmeno coloro che hanno urlato all’ennesimo film sul tema in salsa splatter con tendenza all’antisemitismo diretto da un invasato fondamentalista cattolico; ma comunque la si pensi non si può che lodare la bravura tecnica e drammaturgica di un Gibson che avrà, sì, confezionato un film studiato a tavolino sotto certi punti di vista, ma memorabile anche per le controverse opinioni che sa suscitare.

Riccardo Antoniazzi

Classe 1996. Studente di lettere moderne a tempo perso con il gusto per tutto ciò che è macabro. Tenta di trasformare la sua passione per la scrittura e per il cinema in professione.
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