Film

La pazza gioia, Virzì ci spiega la vita

Virzì fa centro ancora una volta. Vi potrei descrivere cosa penso già solo in una frase, e sarebbe questa. Tuttavia, dopo averci pensato un po’, posso anche spiegare perché.

L’ultimo film che ho visto del nostro amico livornese era Il capitale umano, e lo avevo trovato sublime per il solito motivo: il Paolone nazionale ci parla di temi e concetti complessi, di quelli che tendenzialmente noi non sappiamo spiegare neppure in giorni e giorni, attraverso vicende lineari, semplici, che talvolta ci possono sembrare persino ovvie. Io vi giuro che tutte le volte che ho guardato un suo film mi sono chiesta come diavolo fosse possibile. Ora, immaginatevi cosa è successo al mio cuoricino di fan sfegatata quando ho sentito che il suo film successivo avrebbe trattato la psicosi femminile.

La trama

Già, perché La pazza gioia parla di questo: due donne, entrambe ricoverate in una comunità terapeutica, riescono praticamente per caso a fuggirne. Una depressa, sciatta, l’altra bipolare (ragazzi, io Valeria Bruni Tedeschi non la sopporto, ma trovo che questa sia la sua miglior interpretazione di sempre) e ossessionata dalla bella presenza, dai propri abiti firmati e quant’altro. Nel fuggire verranno rincorse, oltre che dai medici della comunità, dal proprio passato, dalle proprie storie, da quello con cui non volevano fare i conti e quello che invece non si erano dette, quel che avrebbero voluto dimenticare.

Quindi?

Al di là del vero e proprio feticismo che ti fa salire la fotografia di Virzì con le sue luci meravigliose (e la scelta di location sempre più belle, quasi a contrasto con i personaggi che vi incontreremo, che si mostrano sempre “sporchi” a confronto), c’è questa cosa meravigliosa che Virzì ci fa vedere un po’ sempre, che è la vita. Ora, detta così sembra una roba retorica da quattro soldi, ma se ci si pensa bene già in questi termini si capisce che si tratta di una roba un attimino difficile. Mi spiego: tutti i suoi personaggi, tutte le sue vicende, ci si mostrano come negative e positive ad un tempo. Se ne Il capitale umano avevamo un’esplicita condanna, al tempo stesso ci era stato mostrato qualcosa di buono in grossomodo tutti i protagonisti.

Ne La pazza gioia invece abbiamo il contrario: Paolone potrebbe cadere retoricamente nella difensiva schietta, in un banale “Poverine, sono matte, compatiamole e concediamo loro di fare ciò che vogliono”. O peggio, poteva finire in una specie di smentita della pazzia in quanto tale. Invece le due donne di Virzì sono delle folli “a tutto tondo”, hanno le loro qualità ma anche una discreta dose di difetti, e ci si palesano sì come meritevoli di compassione, ma anche come assolutamente insopportabili (infatti, tornando alla questione della Tedeschi, la troverete brava, ma non avrete mai desiderato di accoltellarla così tanto).

La mia tanto amata morale!

In una parola, Virzì e La pazza gioia sono equi. Lo sono perché sanno dirci com’è fatto il mondo, come sono fatte le persone: non bianche o nere, ma piene di sfumature, e sì, anche quelle un po’ sopra le righe. Anche Beatrice e Donatella, attraverso le quali Virzì ci dimostra quanta vita può esserci in ogni gesto, quanta bellezza può regalarci una corsa per prendere un autobus senza sapere dove conduca, nell’andare a tutta velocità su una decapottabile. Fino ad arrivare a cose più semplici, come scoprire quanto sia bello guardare tuo figlio negli occhi.

La vita, questa cosa che noi non sappiamo spiegarci, ci scorre davanti, tra le righe, in ogni frame di questo film. Come se il regista volesse dirci che è essa stessa a rendere tutti folli per forza, perché ce n’è troppa, per non diventarlo. Come se Virzì fosse un narratore paziente che ci ricorda, ancora una volta, di quanto si debba essere davvero, davvero pazzi, per non lasciare andare un poco il resto. E darsi, molto semplicemente, alla pazza gioia.

Gaia Cultrone

1994, ma nessuno ci crede e ancora bersi una birra è complicato. Cinema, libri, videogiochi e soprattutto cartoni animati sono nella mia vita da prima che me ne possa rendere conto, sono stata fregata. Non ho ancora deciso se sembro più stupida di quello che sono, o più furba; pare però che il cinema mi renda, quantomeno, sveglia. Ah, non so fare battute simpatiche.
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