
La piccola bottega degli orrori: piante assassine in omaggio agli Eighties
Ah, gli Anni Ottanta. Quel decennio magico fatto di lustrini, spalline imbottite e capelli improbabili, quando la speranza la faceva da padrona e l’eccesso era la norma. Un paio di lustri che chi ha vissuto ricorda con nostalgia, e chi ha avuto la (s)fortuna di nascere troppo tardi rimpiange per sentito dire. D’altronde, le testimonianze più fedeli dell’epoca ce le ha lasciate il cinema, e come si fa a non amare un periodo riassumibile con la parola “technicolor”? Colori sgargianti ovunque, protagonisti assoluti di storie altrettanto esagerate: erano i giorni in cui l’horror ha visto la sua rinascita tra mostriciattoli quasi adorabili, pagliacci assassini e, last but not least, piante carnivore con tendenze omicide. E del resto cos’altro potreste aspettarvi varcando la soglia de La piccola bottega degli orrori?
Chicca del 1986, ai tempi passata in sordina e ora diventata cult, il film di Frank Oz è in realtà ambientato una ventina d’anni prima, e in effetti è proprio il remake di un omonimo del 1960: tutto però trasuda Eighties, abiti dei protagonisti a parte. Ma procediamo con ordine: Seymour (Rick Moranis) è l’imbranato e pure un po’ sfigato garzone di un fiorista dei bassifondi di New York, segretamente ma neanche troppo innamorato della collega Audrey (Ellen Greene), che però è già fidanzata con il sadico dentista Tony Scrivello, uno Steve Martin in formissima che in quel decennio aveva evidentemente deciso di divertirsi sì, ma in grande stile – Anni Ottanta, ricordate?
Comunque: speranze poche, clienti ancora meno, finché mossi dalla disperazione Seymour e il suo principale (Vincent Gardenia) decidono di mettere in vetrina una misteriosa pianta comprata da un altrettanto misterioso cinese qualche giorno prima. Indovinate? Da quel momento La piccola bottega degli orrori diventa il cuore nevralgico del quartiere. C’è solo un insignificante problema: la pianta in questione si nutre di sangue, e ne vuole sempre di più.
La piccola bottega degli orrori è un gustosissimo, perfetto riassunto della sua epoca: non ha intenti educativi, si fa beffe del passato, adora stupire e soprattutto si prende con tanta, tanta leggerezza. Il sogno di Audrey e Seymour è tipico della middle-class di qualche anno prima: una casa in campagna, mobili di marca ma pur sempre economici, un paio di pargoli, un tosaerba e una cena surgelata sempre pronta. Questo film altro non è che un adorabile sfottò a quei desideri ormai superati, un inno alla modernità mascherato da commedia dai tratti orrorifici.
La vera protagonista, il vegetale famelico, è un gigantesco bulbo bluastro con tanto di lingua e denti aguzzi; Audrey indossa vestiti scollacciati e un caschetto platino; e il grembiule di Tony assomiglia più a un accessorio sadomaso. La piccola bottega degli orrori è un potpourri di tutto quello che andava di moda all’epoca, un compendio di apparenza e estremi che commuoverebbe anche il più austero degli spettatori. E per non farsi mancare nulla, oltre che un film comico, un horror, un sentimentale, La piccola bottega degli orrori è anche un musical: su tutte spicca il trio Crystal – Chiffon – Ronette, meraviglioso nella sua superficialità.
Un’ultima, piccola perla se ancora aveste qualche dubbio: a una certa compare, seppure per poco, il mitico James Belushi, ma soprattutto Bill Murray nei panni del paziente masochista di Tony; ne consegue che, per una decina abbondante di minuti, La piccola bottega degli orrori ci regala Bill Murray E Steve Martin che gigioneggiano e fanno gli scemi.
Unica pecca: il finale originale, ben più terrificante di quello scelto dalla produzione, venne scartato perché eccessivamente tragico. D’altra parte, a quei tempi le lacrime non erano ammesse. Allora, cosa state aspettando a mandare indietro le lancette di diciamo – ouch! – una quarantina d’anni?