
La Pointe Courte: quando Agnès Varda scoprì il cinema. E la Nouvelle Vague
Qualche giorno fa c’è stato un lutto che è quasi passato in sordina: il 29 marzo 2019, alla veneranda età di quasi novantun anni, si è spenta Agnès Varda, e con lei il suo strabiliante caschetto che sembrava un gelato crema e cioccolato. C’è una sola cosa positiva in casi come questi: invece dei soliti coccodrilli e necrologi preimpostati, ci si può consolare con qualche rassegna cinematografica che quasi sempre qualche gestore di cinemino indipendente decide di organizzare per omaggiare l’illustre defunto.
Che nello specifico è stata una delle primissime voci della Nouvelle Vague, se non addirittura colei che ne ha dato il la: la sua ultima fatica è stato il documentario Visages Villages, il film che l’ha resa celebre Cléo dalle 5 alle 7, ma la sua opera prima, quella che le ha fatto conoscere la macchina da presa per poi decidere di non lasciarla mai più, è La Pointe Courte del 1955. Avete presente quando vi intristite pensando che Michelangelo aveva una ventina d’anni quando ha realizzato la Pietà? Ecco, Agnès Varda ai tempi de La Pointe Courte ne aveva ventisette: non un’adolescente, certo, ma comunque più giovane della sottoscritta, per dire, e già una nota fotografa. Ma non temete: potete risollevarvi il morale guardandolo, La Pointe Courte, perché ne vale proprio la pena.
La trama è di una semplicità quasi disarmante: una giovane coppia dopo qualche anno di matrimonio va in crisi, lui torna al paesello natìo, lei lo segue, e i due parlano, parlano, parlano – una locale ad un certo punto borbotterà che parlano troppo per essere felici. Sullo sfondo le vicende del paesello in questione, o meglio, di un quartiere del paesello, La Pointe Courte per l’appunto, una striscia di terra costellata da baracche di pescatori e abitata da pochi uomini e parecchi gatti. Nota a margine: se vi dovesse capitare di essere sedotti da questa cartolina e vi prendesse la briga di organizzare un viaggio da quelle parti, sappiate che ad oggi quel micro angolo di Sète, nel sud della Francia, pare aver perso gran parte della poesia originaria. O tempora.
Comunque: questo è quello che succede a La Pointe Courte, quindi quasi nulla, tutto sommato. Però in quel niente e in poco più di un’ora Agnès Varda riesce a dipingere un piccolo affresco di vita privata e corale. In parte è merito dei due protagonisti, dei quali per tutta la durata del film non verrà mai rivelato il nome: lei è Silvia Monfort, lui un giovanissimo Philippe Noiret. In parte è merito dei dialoghi: che anticipano i temi della Nouvelle Vague, ma con una freschezza e una levità introvabili in altre pellicole dell’epoca. Amore che cambia, amore che matura, amore che è più forte delle persone che lega: questo, in breve, ciò che si dicono i protagonisti. In mano a qualcun altro si sarebbe trasformato in un polpettone indigesto, qui invece è pura poesia.
Ma la bellezza de La Pointe Courte sta soprattutto nell’uso magistrale della fotografia: e d’altronde Agnès Varda aveva già un passato dietro ad altri obiettivi, e al montaggio le ha dato una mano nientemeno che Alain Resnais. Ogni inquadratura è un piccolo capolavoro: i visi dei due protagonisti che si incrociano, le stradine sterrate che si perdono tra lenzuola stese e cataste di legna, le reti al vento, e un gatto letteralmente a ogni angolo. In questo scenario quasi da presepe un bambino muore, i pescatori cercano di aggirare le autorità ignorando i divieti, va in scena la festa patronale, si celebra l’anticipo di un matrimonio, la vita scorre. Ecco, se si dovesse descrivere La Pointe Courte si tratterebbe proprio di questo: di scene di vita qualunque, in un paese qualunque, per una coppia qualunque. Assemblate in un film che qualunque non è.