
La ragazza del lago: Servillo se la tira, e fa bene
Toni Servillo se la tira. Tantissimo. Ma roba che traspare da ogni sua inquadratura, sia che gigioneggi ai party su decadenti terrazze romane, che giochi al gangster sentimentale o che, come in questo caso, si diverta a travestirsi da classico commissario scorbutico, tenebroso e pure un po’ antipatico. Ma dopo aver visto La ragazza del lago, viene proprio da pensare che ne ha tutto il diritto, di tirarsela.

Il film, opera prima di Andrea Molaioli tratta dal romanzo della scrittrice norvegese Karin Fossum, alla sua uscita nel 2007 si portò a casa tre Nastri d’Argento e ben dieci David di Donatello; e, inutile negarlo, gran parte del suo meritatissimo successo è dovuto proprio al protagonista. Che, da aristocratico qual è, si prende dieci minuti buoni prima di fare il suo ingresso in scena: La ragazza del lago si apre infatti con una bimba che, allontanatasi dalla strada principale del suo paesino nel friulano, finisce a casa del matto del paese, un ottimo Franco Ravera affiancato da un altrettanto bravo Omero Antonutti. Questo incipit da solo vale l’intero film: la tensione crescente, la sensazione che in un attimo potrebbe succedere qualcosa di orrendo attanagliano le viscere dello spettatore. Salvo poi diradarsi altrettanto velocemente: la bambina rimarrà sana e salva, ma non così la ragazza che ha intravisto sulle sponde dei laghi di Fusine, coperta solo da una giacca e, se ci fosse bisogno di specificarlo, morta.

È qui che entra in scena il nostro, che in pochi minuti diventa il sovrano assoluto dello schermo: unico forestiero della storia, il commissario Sanzio osserva, studia, indaga. E tace, per gran parte del tempo; ma quando parla, è sferzante – una su tutte, “sono uno che vuole che gli si dia del Lei”. Sia che vesta i panni istituzionali, sia che cerchi di badare alla figlia Francesca (Giulia Michelini) o alla moglie malata di Alzheimer e sempre più distante (Anna Bonaiuto), Servillo buca lo schermo e ci trascina negli inferi della provincia. Dove tutti sanno, ma nessuno dice; dove nessuno è colpevole, ma non esistono innocenti.

A fare, solo apparentemente, da contorno, una Valeria Golino in pieno stile attrice-italiana-di-mezza-età che bisbiglia, mormora, fa la nevrotica, e per contro un Fabrizio Gifuni in stato di grazia. Il quale, dopo un’estenuante indagine fatta di sussurri e non detti, porterà silenziosamente a galla tutta la ferocia e la disperazione che possono maturare in una microscopica famiglia di un microscopico paesino.

È in questo che La ragazza del lago si differenzia dalla moltitudine di film italiani ambientati in tutto ciò che non è Milano o Roma: non parla dell’ennui borghese, non è un giallo e nemmeno un noir; piuttosto, è psicoanalisi. Dei rapporti umani, dell’infelicità, di quanto siamo disposti a sopportare e fino a dove possiamo sprofondare pur di, paradossalmente, sopravvivere. Non è perfetto: ci sono lungaggini, manierismi, qualche cliché; ma nel panorama italiano La ragazza del lago è una boccata d’aria fresca, un modo per ricordarsi che, quando lo vogliamo, possiamo ancora fare del cinema. E tirarcela, perché no.