
La ragazza nella nebbia e la lotta con Barbara D’Urso
La ragazza nella nebbia arriva in un periodo particolare per il cinema italiano, un periodo in cui qualcuno ha capito che bisogna osare, anche fallendo, per smettere di produrre commedie del cazzo con Ambra Angiolini. E già Cosimo Gomez l’aveva capito con Brutti e cattivi. Carrisi, da buon tuttofare, decide di dirigere un film tratto dal suo omonimo romanzo, e il risultato è, per quanto mi riguarda, vincente.
La ragazza nella nebbia, sicuramente, non è un film perfetto.
Carrisi non riconosce i limiti del suo cast (La madre di Anna Lou è davvero ignobile, davvero, e lo stesso Servillo in alcune scene ha reminiscenze de La grande bellezza e inizia a recitare in una maniera stranamente caricata, nonostante abbia fatto un ottimo lavoro nel caratterizzare il suo Vogel), e cade più volte nella trappola di voler seguire per filo e per segno tutte le pagine dell’opera originale, e a dirla tutta nemmeno la regia è perfetta, in quanto supportata da una fotografia poco chiara, che sembra riprendersi solo nella seconda parte della pellicola. Ma La ragazza nella nebbia ha un cuore enorme.
La trama è intricata e ruota attorno alla scomparsa di Anna Lou, una ragazza che vive nella città di Avechot, e, nonostante all’apparenza possa sembrare semplice, il tutto va confluendo in una seconda sequenza di spessore anche filosofico notevole per un film italiano che non riguarda le vacanze di Natale, in cui il tema centrale è il male e il fatto che questo abbia sempre un senso, perché è il cattivo a fare la storia stessa.
Il punto di forza della narrazione, è l’attualità.
La messinscena si articola su due punti di vista differenti, quello dell’investigatore e quello del sospettato, in un continuo gioco di accuse reciproche che è reso davvero bene, per poi arrivare ad un mindfuck finale degno di nota e, soprattutto, non scontato.
Rispetto a quel disastro de L’uomo di neve, questo thriller funziona davvero molto bene sul piano dell’indagine, tralasciando leggermente il pathos della scomparsa della figlia, probabilmente proprio per la recitazione dei due genitori della ragazzina, entrambi di probabile origine canina. Per non parlare di Jean Renò, uno dei miei attori preferiti, che qui recita in una lingua non sua, e, purtroppo, si sente parecchio. Oltre alla brutalizzazione completa dei congiuntivi, su cui si può passare, risulta quasi macchiettistico. Ma doppiarlo no, eh?
La recitazione di Servillo e Boni, le due anime del film, però, è molto buona: Boni caratterizza un personaggio così inetto che ogni tanto si prova l’istinto di tirare qualche schiaffone a vuoto verso lo schermo, mentre Servillo, ovviamente, ha un’espressività fuori dal comune, nonostante quel tono un po’ caricato di cui accennato prima.
Ma, quindi, è interessante?
Con una sceneggiatura del genere, non può non esserlo. Nonostante alcune sequenze ricordino troppo da vicino quel Prisoners di Villeneuve, tipo la veglia a casa della ragazza scomparsa, che è imbarazzantemente presa e trasposta su schermo, persino con gli stessi colori, il film non cade nella banalità, e finalmente, passo a spiegare il titolo del mio articolo: Carrisi riesce a prendere a pesci in faccia Barbara D’Urso, scagliandosi contro quella marmaglia di gente che non vuole giustizia, vuole solo un mostro da condannare, senza accettare che il male possa provenire, per quel sortilegio citato nel film, dall’interno e, quindi, non facendosi tangere dall’accaduto. Ciò è reso attraverso il personaggio di Vogel, interpretato, appunto, da Servillo, che è un attempato detective che si serve dei media per risolvere i suoi casi, soffrendo della comune caratteristica dei detective non giovani dei polizieschi: non sbaglia mai, anche quando sbaglia.
Carrisi analizza quest’aspetto, non preoccupandosi della freddezza e della cattiveria delle scene da lui girate. Non è raro, infatti, pensare ma è vero!, quando viene fatto (velatamente) riferimento a fenomeni legati a casi di cronaca nera, analizzati su La vita in diretta o Pomeriggio cinque: il rendere famoso “il mostro”, intervistarlo, dargli un’attenzione e un’entrata economica del tutto immeritata, è un qualcosa su cui il regista/scrittore si focalizza molto. E lo fa bene.
La ragazza nella nebbia è sicuramente un’ottima opera prima, piacevole da vedere, e, sperandoci, potrebbe essere uno stimolo per qualche produttore italiano affinché si smetta di finanziare quelle cazzate di merda che fanno schifo al cazzo quei brutti film che, a quanto pare, fortunatamente non piacciono quasi più a nessuno.