Park Chan-wook, il cinema orientale, Tarantino: tutto quello che c’è da sapere sulla magnifica e terrificante Trilogia della Vendetta.

Festival di Cannes.
Anno Domini 2004.
Quentin Tarantino, fresco fresco di Kill Bill, è presidente di giuria: già così ci sono i presupposti per una grande storia.
Faceva caldo a Cannes quell’anno, i film in concorso erano tanti, la giuria, piena di critici, registi affermati, attori, presenziava silenziosamente alle proiezioni, fino a quando il presidente – con la compostezza che lo contraddistingue – inizia a saltare ed esultare come me al gol di Grosso. No, non era risorto Fulci e no, non avevano dato l’Oscar a Kubrick fuori tempo massimo: il buon Quentin aveva appena finito di vedere un film e ne era entusiasta.
Oldboy, si chiamava il film, Park Chan-wook il suo regista.
“Questo è il film che avrei sempre voluto fare” dirà in seguito il cineasta di Knoxville, Tennessee. Sono nove parole: un aggettivo dimostrativo, quattro verbi, un sostantivo, un articolo determinativo, una congiunzione e un avverbio di tempo. Queste nove parole cambieranno per sempre la vita di un regista sudcoreano dal nome impronunciabile che, grazie a Tarantino, vince il Gran Prix Speciale della Giuria (la Palma d’Oro era andata a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore). Il premio, insieme all’entusiasmo di Tarantino, ha il merito di rivelare al mondo l’eccezionalità del lavoro di Park Chan-wook e, soprattutto, della sua trilogia della vendetta, di cui Oldboy è solo il secondo capitolo.
Iniziata nel 2002 con Mr. Vendetta, proseguita nel 2003 con Oldboy e conclusasi nel 2005 con Lady Vendetta, ciò che emerge da questa trilogia ideale (i tre capitoli sono assolutamente autonomi l’uno dall’altro) è un’umanità completamente distrutta, fatta a pezzi da sentimenti laceranti e scelte sbagliate che conducono i personaggi sempre alla catastrofe, mossi da istinti primordiali (l’odio, l’invidia, l’egoismo, il potere, la vendetta) che in cuor loro sanno essere sbagliati, ma dai quali non riescono a sottrarsi. La magia del regista coreano sta nel riuscire a far percepire le varie vendette come giuste e inevitabili, ma anche schifose e disumane, il tutto in un mix angosciante che tiene lo spettatore legato alla poltroncina, mentre sente spezzarsi qualcosa dentro: la sensazione di stare, sempre e comunque, dalla parte dei buoni.
Mr. Vendetta (Sympathy for Mr. Vengeance, 2002)
Ryu ha i capelli verdi, una sorella molto malata, lavora come saldatore e – per inciso – è sordomuto. Per prestare le cure necessarie alla sorella è disposto a tutto: supplicare per avere un prestito, licenziarsi per ottenere la liquidazione, vendere un rene, persino. Purtroppo, quando si accorgerà che nulla di tutto ciò è utile, ricorre alla soluzione estrema: sequestrare la figlioletta del suo ex datore di lavoro. Le cose sembrano andare per il meglio fino a quando la sorte farà sì che la vita di Ryu precipiti in un baratro di orrore e disperazione dalla quale dovrà cercare di divincolarsi per sopravvivere.
Mr. Vendetta mette subito in chiaro una cosa: con Park Chan-wook non si scherza. La prima metà del film serve sostanzialmente per spiazzare lo spettatore, calarlo in una realtà grottesca e disumanizzata come la Corea da lui raccontata, la seconda per agganciarlo a una spirale di morte e violenza psicologica che lo trascineranno fino in fondo.
Diciamola così: se siete alla prima uscita forse questo non è il film giusto. Dalla seconda in avanti invece diventa quasi d’obbligo, posto che il vostro partner sappia godersi un film strabiliante. Pur essendo il minore della trilogia, Mr. Vendetta riesce a dimostrare come il cinema orientale – a differenza di quello americano – sia vivo e vegeto, capace di scombussolare lo spettatore unendo forma e sostanza in un mix unico e irripetibile. Questo film è pazzesco, ragazzi, non c’è altro modo per raccontarvelo. Guardatelo e poi ridete di voi quando dicevate che alla fine di un episodio di Black Mirror vi sentivate morti dentro. Ecco, auguri.
Oldboy (Oldboy, 2003)
Dopo una sbronza molesta Dae-su, un grigio impiegato avvinazzato, viene rilasciato dai poliziotti. È sposato e ha una figlia piccola. Non farà troppa strada visto che, poco dopo, un misterioso rapitore lo sequestra e lo rinchiude in una stanza.
Per quindici anni.
Unica compagna? Una televisione scassata la quale, con macabra precisione, lo informa dell’assassinio della moglie, del quale lui stesso è il principale sospettato.
Dae-su passerà quindici anni a covare odio, tentando varie volte il suicidio (sempre sventato da misteriosi sequestratori), tatuandosi sul braccio il passare degli anni e preparandosi fisicamente alla vendetta, l’unica cosa che gli rimane. L’unico senso che può ancora avere la sua vita distrutta.
Da molti indicato come il migliore della trilogia, Oldboy in realtà si colloca – a mio modo di vedere – a pari merito con Lady Vendetta. Perché allora questa disparità di trattamento (che nel 2013 gli ha persino meritato un orrido remake americano diretto da Spike Lee) che ha portato Oldboy a essere uno dei film orientali più osannati di sempre, mentre Lady Vendetta in proporzione non se lo caga quasi nessuno? Nessuna malevola tendenziosità dei critici, quanto piuttosto il differente stile narrativo: il secondo capitolo della trilogia, infatti, è molto più “americano” sotto il punto di vista del racconto e tende meno all’ellissi e alla narrazione non lineare di Mr. e Lady Vendetta. Detto in parole povere, pur essendo lontano mille miglia dal gusto dello spettatore medio, è molto più facile entrare nell’universo tenebroso della trilogia della vendetta passando per Oldboy.
Vedendo questo piccolo capolavoro si capisce immediatamente perché sia tanto piaciuto a Tarantino, Tarantino a cui certamente Park Chan-wook deve qualcosa, anche se il regista coreano elimina completamente dalla violenza l’aspetto ludico, oltre che la tendenza citazionista e gigioneggiante dell’americano, preferendo un’atmosfera da incubo, una voice-over narrante, sequenze oniriche destabilizzanti e una fotografia sporca, che contrasta con una regia precisa al millimetro e sferzante come le martellate di Dae-su. Oldboy è la versione moderna (e orientaleggiante) del mito di Edipo, un’opera d’arte pura che si incide sulla carne di uno spettatore che, se attento, non può rimanere indifferente a un film imprescindibile.
Lady Vendetta (Sympathy for Lady Vengeance, 2005)
Geum-ja è un’assassina di bambini, o perlomeno è per questo che si è fatta 13 anni di carcere: perché qualcuno ha ucciso un bambino e l’ha incastrata, imponendole il carcere e una gogna mediatica che ne hanno distrutto la vita e l’immagine pubblica. Unico desiderio? Vendetta, naturalmente.
Anche questa volta la narrazione di Park Chan-wook è ellittica, non procede in modo lineare, ma alternando flashback a sequenze oniriche, ricostruisce il dramma di una ragazza angelo costretta a diventare demonio. Lady Vendetta chiude alla perfezione una trilogia iniziata benissimo con Mr. Vendetta, proseguita alla grandissima con Oldboy e chiusa da un film che – di nuovo – impiega parecchio tempo prima di rivelarsi per quello che è. Senza spiegoni, senza dialoghi farlocchi, utili a una sceneggiatura: nel suo cinema il regista coreano ci mette il dramma che è la vita, le sue insensatezze, i suoi momenti morti. Lady Vendetta fa di più: punta il dito verso chi guarda e pone allo spettatore dilemmi morali, lo mette di fronte a scelte che determineranno la natura di un’anima e di un’umanità smarrita, divorata dal livore, preda della propria bestialità, sepolta – come nel caso di Geum-ja – anche sotto forme assolutamente innocenti.
La trilogia della vendetta conduce, ovviamente, anche un discorso sulla giustizia, sui suoi limiti, sulle sue incongruenze e punti ciechi: quei luoghi dell’anima dove solo il sangue può lavare il sangue. La trilogia è anche questo: un incubo maestoso, diretto da un regista visionario, che riesce a unire la solidità della narrazione alla scrittura di personaggi incredibili, problematici, lucidamente folli, ripresi con una maestria e una tecnica (il piano-sequenza del combattimento nel corridoio di Oldboy, tanto per dirne una) che ha pochi eguali. Il tutto però mantiene quell’aura da cinema d’autore anti-commerciale che forse non piacerà a tutti, che richiede un surplus di impegno da parte dello spettatore, che però viene ripagato con un godimento – e patemi d’animo, perché no? – che raramente il cinema riesce a regalare.
In tutto questo si vede il trionfo del cinema orientale, un cinema più indipendente, più artistico, meno legato al volere del pubblico, dell’incasso a tutti i costi e che riesce a supportare l’attività di autori (Takashi Miike, Kim Ki-duk, Mamoru Ooshi, Hayao Miyazaki, Takeshi Kitano, Takashi Shimizu, Hideo Nakata, Zhang Yimou, John Woo, Tsui Hark, ecc) che da anni sfornano un capolavoro dopo l’altro, ma che ben pochi – qui in Occidente – tengono in considerazione.
Da dove iniziare?
Il mio consiglio è Oldboy. È certamente il più commerciale (detto in tono assolutamente non dispregiativo) e capace di calare fin da subito nelle atmosfere sia del cinema orientale che di questa trilogia, atmosfere di cui, ovviamente, anche Mr. e Lady Vendetta sono pregni: una sadica apocalisse dove emerge solo il lato peggiore di questa umanità che al regista deve fare così tanta paura che per descriverla ci ha messo tre meravigliosi film.