È iniziato il Ravenna Nightmare Film Fest e siamo partiti col botto. In occasione della presenza degli ormai leggendari Manetti Bros. al festival si è scelto di proiettare uno dei loro lavori più iconici: L’arrivo di Wang.
Fate ordinati la fila per uno (c’è il covid, per due non si può fare) e seguitemi che parliamo di alieni.
L’arrivo di Wang innanzitutto rappresenta, nel cinema italiano, uno degli ultimi baluardi del cinema di genere. Ci troviamo davanti, infatti, un interessantissimo sci-fi rivisitato in salsa giallo.
Tutta la produzione dei fratelli Manetti, in realtà, si orienta in questo senso, recuperando il cinema di genere e cercando di farne qualcosa di utile anche nel moderno cinema italiano.
Il risultato è un cinema pressoché di nicchia, di quelli low budget (per L’arrivo di Wang sono stati impiegati solo 500.000 euro) che fanno pensare a una produzione di serie B.
Che tra l’altro ho sempre trovato fuorviante questo termine, perché fa pensare a una produzione di categoria inferiore, quando in realtà all’interno del cinema di serie B si possono trovare perle sconosciute. Ne cito alcune: Mario Bava, Lucio Fulci, Mad Max. Così, per dire.
La trama de L’arrivo di Wang è molto minimale. C’è sta tizia che fa la traduttrice di cinese e viene chiamata da personaggi loschissimi per un lavoro segretissimo. Lei tituba ma accetta e alla fine si trova a conversare, in cinese, con un alieno. Detto così fa un po’ ridere, ma fidatevi che a vederlo è inquietante.
Il minimalismo è anche registico. I Manetti mettono in scena scelte molto intelligenti e votate al risparmio. Peccato per le prime decine di minuti di film, che presentano una regia, come dire? un po’ troppo italiana, un po’ troppo televisiva per una pellicola cinematografica. Ma poi il livello si alza.
Peccato anche per la recitazione, non sempre esattamente all’altezza. Però Ennio Fantastichini è fenomenale.
L’arrivo di Wang diventa interessante proprio perché si sviluppa come un interrogatorio in commissariato, ma ad essere interrogato è un alieno. Un alieno particolare, però.
Infatti, a differenza della maggior parte delle produzioni hollywoodiane, che presentano gli alieni come ostili e il cui unico scopo è invadere la terra e fecondarci coi loro tentacoli, qui l’alieno, apparentemente, è pacifico. Non solo: è educato.
Durante l’interrogatorio sembrano proprio gli esseri umani ad esseri i mostri, i cattivi.
Lo scheletro della sceneggiatura è un po’ povero, ma ben bilanciato in quanto l’interrogatorio si struttura su 3 personaggi: la traduttrice, Wang l’alieno e il tizio losco che ha ingaggiato la traduttrice.
Quest’ultimo viene rappresentato come un gran figlio di puttana. Nonostante Wang ribadisca incessantemente che è giunto in pace e che il suo obiettivo è stabilire un rapporto di conoscenza pacifica con gli esseri umani, tizio losco continua a incazzarsi perché non ci crede.
Che per carità, è assolutamente comprensibile. Voglio dire io se mi trovassi davanti a un alieno che mentre beve il tè alza il mignolo l’ultima cosa che vorrei fare è invitarlo a cena. Anche se magari una bella zuppa di tentacoli alieni…
La traduttrice invece si erge a paladina dei diritti umani. Generando anche una certa ironia, perché quando lei invoca la carta dei diritti, giustamente tizio losco le fa notare sarcasticamente che forse forse quei diritti non valgono anche per gli alieni.

L’interessante de L’arrivo di Wang sta tutto qui: è un discorso sull’accettazione dell’altro. È forse un po’ ridondante la struttura della sceneggiatura, che sostanzialmente si basa sulla diffidenza di tizio losco, il quale fa ripetere all’infinito le stesse domande all’alieno sperando di scoprire qualcosa sulle sue origini e i suoi obiettivi. Ma Wang sembra davvero innocuo e ben disposto.
Tra l’altro a un certo punto Wang viene anche torturato con l’elettro shock e sembra quasi che i Manetti stiano cercando di mettere alla berlina la malvagità dell’essere umano. Un essere umano che, ripeto, per la prima volta viene visto come il carnefice nei confronti dell’alieno e non viceversa.
Cioè per dire, pensate anche ad Alien. In quel caso sono gli esseri umani a giungere su un pianeta alieno, ma resta il fatto che poi quando gli alieni li incontriamo essi sono cattivissimi, cioè ci mangiano la faccia, dai. Innanzitutto c’è il covid, quindi stammi lontano. E poi le buone maniere? Un invito a cena? Cioè come fate voi per corteggiarvi? Vi ciucciate la faccia e auguri e figli maschi?
Però poi c’è il colpo di scena.
Infatti, alla fine, l’alieno era ostile per davvero. In una serie concatenatissima – e a dire la verità un po’ caotica e forzata – di eventi la traduttrice riesce a liberare Wang. Quando stanno per fuggire dall’edificio di massima sicurezza, però, lei scopre che nel frattempo è iniziata l’invasione aliena. Si gira verso Wang, il quale la guarda e dopo il danno anche la beffa: “Sei proprio una cretina”. Cioè la piglia pure per il culo capito?
A questo punto, però, ho delle riflessioni da fare.
Durante la visione de L’arrivo di Wang sono stato attratto particolarmente da questa rappresentazione atipica dell’essere alieno. Pensavo davvero che, per una volta, i Manetti avessero voluto ribaltare le carte in gioco, trasformando noi nei cattivi e gli alieni nei buoni. Ma invece no. E quindi che significa?
Io credo che la risposta sia da cercare in una messa a nudo del facile buonismo. Effettivamente, immaginandosi nella situazione, la traduttrice è la classica tizia che si fida indiscriminatamente di chiunque susciti la sua pietà, cosa che Wang fa sin dall’inizio.
E quindi sarebbe questo che i Manetti stanno criticando: come fai a fidarti così, oltre ogni ragionevole dubbio, di un essere alieno che non è in grado di darti la prova della sua innocenza?. Allo stesso tempo, però, come fa un innocente a dimostrare la sua innocenza in questo caso?
Il discorso è molto più complicato di quanto sembri e dunque la riflessione è molto interessante. La visione che i Manetti ci lasciano è di un pessimismo che definirei quasi cosmico, in quanto il buonismo e i buoni propositi falliscono clamorosamente di fronte alle mire espansionistiche di una civiltà aliena.
Ciò che mi è spiaciuto, tuttavia, è il fatto che questo epilogo fa ripiombare il film nella classica visione dell’alieno come nemico, come invasore. Magari sbaglio io, ma mi sembra un po’ un appiattimento di un discorso sulla xenofobia intrinseca degli esseri umani. Non dimentichiamoci, d’altronde, che Wang parla cinese.