
Let Her Out: un diabolico Giallo intimo
Helen è una ragazza senza famiglia che si guadagna da vivere facendo consegne. Per una macabra ironia, un’auto la investe proprio davanti alla camera del motel in cui la madre aveva trovato la morte. La ragazza sembra rimettersi, ma il trauma è stato grave e i medici le anticipano che (in un modo o nell’altro) le conseguenze si manifesteranno. Helen comincia ad avere dei buchi di memoria e strane visioni allucinate. A seguito di una tac, sarà chiaro cosa sia a causare questi malesseri: formazione di tessuti estranei.
Come un tumore, la sua gemella, assorbita durante la gravidanza, sta riemergendo. In attesa del giorno dell’intervento, la ragazza comincerà una discesa sempre più ripida e senza freno all’interno di un incubo terrificante dal finale cupo e senza scampo.
«Come ti vedi non è necessariamente come ti vedono gli altri»
(Roman alla protagonista)
Cominciamo col dire che Let Her Out si presenta bene. Le riprese sono tutte ben curate e le inquadrature sono davvero ben costruite. Lo stile, sebbene con spiccati tocchi di modernità, omaggia i classici anni ’70-’80 del genere horror. Passando per momenti lenti e silenziosi, fino ad arrivare a vere e proprie esplosioni di follia e terrore.
L’amore per questa età d’oro dell’orrore porta il regista Cody Calahan persino a lasciar perdere effetti generati al computer per tornare ad effetti prostetici, fisici. Una strada che si affida anche alla recitazione degli attori per rendere credibile quel che sta accadendo, soprattutto all’ottima Alanna LeVierge (interprete di Helen).
I colori creati per il film sono artificiali, innaturali, al neon. Fin dal prologo, il film trova la sua identità, simile ad un incubo febbrile, totalmente fuori controllo e assurdo. Alcune incongruenze presenti nella sceneggiatura, come il mancato ricovero della ragazza a seguito della tac, non fanno che giovare al film distaccandolo dalla realtà e chiudendolo in un universo tutto suo, rendendolo claustrofobico (quasi polanskiano).
Momenti di silenzio e pace intervallano questa corsa sfrenata, spesso con scene diurne, che ci mostrano finalmente colori più naturali. Eppure non c’è serenità in quelle scene, ma solo una paranoica attesa del successivo black-out.
Inserire (a volte con espedienti eccessivi) i riferimenti al tema del doppio, si rivela una scelta vincente che dona al film un meraviglioso alone di ambiguità che ci invita a leggere questa vicenda fantastica con più attenzione e profondità. Non ci è dato capire se davvero la gemella sia crudele o se quel che cresce all’interno di Helen non sia altro che il suo io più oscuro e irrazionale.
Questo è un tipo di ambiguità che il genere si è sempre ben guardato dal chiarire. Nemmeno un maestro come Bergman, con il suo capolavoro L’ora del lupo, chiarì dove cominciasse il fantastico e dove il reale.
D’altronde quando c’è in ballo la paranoia, questo tipo di confini non esistono…
La protagonista si ritrova, quindi, all’interno di un Giallo intimo, che la porterà a farsi delle domande (non espresse) su di sé, sui suoi pensieri e sulla sua sanità mentale. La storia si rivela una sorta di Strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde raccontato con il linguaggio dell’horror del corpo, in cui il male della ragazza cresce e si fortifica letteralmente al suo interno.
Ma non è solo la protagonista a subire l’effetto di questo demone. Anche le persone che la circondano avvertono questa presenza, ma, diversamente da lei, ne subiscono il fascino. L’umanità raccontata in Let Her Out desidera ardentemente la gemella di Helen e la chiama a gran voce. È una società attratta dal male, dall’eccesso. In questo possiamo dire che Cody Calahan e Adam Seybold subiscano il fascino dei capolavori del maestro David Cronenberg, come La Mosca o Crash.
Ma è con il finale, semplice e al contempo molto rischioso, che il film riesce a portare ottimamente a termine il suo rapporto con lo spettatore. Poiché, come ogni buon film dell’orrore dovrebbe fare, non chiude un cerchio: crea una spirale. Non libera lo spettatore e non gli consente alcuna catarsi.
«Non puoi spaventare la gente solo facendo “Buh!”»
(“Hitchcock”, Sasha Gervasi, 2012)

Volendo però andare a fondo di Let Her Out, non si può non parlare di alcune magagne.
Una scrittura non sempre buona ed efficace, con alcune pecche anche in dialoghi poco curati che non riescono ad entrare nella logica folle del copione.
La gemella della protagonista assume le forme dell’incarnazione della furia primordiale umana. Nuda, sporca di sangue, rabbiosa, muta, violenta. La scelta è azzeccata, se non fosse che, per il resto del film, si ritroverà a lasciar messaggi su specchi e pareti e ad apparire con un look decisamente troppo devoto al modello della nipponica Sadako.
Ma ecco che arriviamo al più grosso neo del film. Calahan si lascia corteggiare dagli stereotipi e dai clichè che hanno perseguitato ininterrottamente l’horror negli ultimi trent’anni.
Classiche inquadrature allo specchio con il fantasma di turno (o creature spaventose) nei relativi riflessi, musiche impersonali ed invadenti, messe solo per comunicare ad uno spettatore insensibile e disattento l’emozione che la scena dovrebbe suscitargli.
E poi, jump scares. Troppi jump scares!
Questa mania continua di fare Buh! dopo un interminabile periodo di silenzio e tensione! Negli anni questo è diventato un espediente davvero ridicolo e prevedibile, anche per colpa della saga di Paranormal Activity e di svogliati prodotti per il grande pubblico. Ed è un vero peccato che un film con diverse frecce al suo arco come questo decida di ricorrere a questo strumento stanco e ripetitivo.
In pochissimi sanno davvero valorizzarlo, usandolo a proprio favore. Un buon esempio lo vediamo con The Ward – Il reparto di John Carpenter, in cui lo spavento improvviso si congiunge sapientemente alla suspense e ad un’atmosfera tesa.
Un film che rimane infortunato da questi difetti, ma non al punto da impedirgli di condurre una gara più che buona.
Morale della favola: Let Her Out non è sicuramente un film che coglierà di sorpresa i fruitori abituali di horror o di thriller psicologici. Spesso si lascia abbindolare dagli stereotipi e ha delle piccole cadute di stile nella sceneggiatura. Eppure, grazie ai suoi buoni pregi, è un film che vale la pena vedere: ben realizzato, ben interpretato. Ha una durata davvero minima ed ha un ottimo ritmo. Il che, a tratti, lo avvicina quasi più ad un’esperienza visiva, piuttosto che ad un film con la classica struttura a tre atti.
Se siete appassionati del genere, e delle sue pietre miliari, e siete in cerca di qualcosa in grado di turbarvi con gusto e con un tocco ben marcato nella narrazione, con questa nuova uscita probabilmente la Midnight Factory potrà accontentarvi.
Ringraziando Koch Media per averci permesso di vedere il film in anteprima, vi annuncio che se con questa recensione sono riuscito a stuzzicare la vostra curiosità, cliccando qui potrete recuperare il film in forma fisica e qui in forma digitale su Chili.
Cheers!
