Film

Lights Out – Fear of the dark

Dovete sapere che io molti anni fa avevo giurato che non sarei mai più andato al cinema a vedere horror a scatola chiusa. E sia chiaro, io sono un autentico fan del genere. Semplicemente mi ero rotto i maroni di spendere soldi per sorbirmi i soliti filmetti da quattro soldi scritti da cani rognosi, recitati da vacche sifilitiche e diretti da scimmie urlatrici.

Insomma, da tempo ormai scelgo con attenta ponderazione gli horror meritevoli dei miei poveri risparmi. Ecco perché è stupefacente che, negli ultimi due mesi, io sia andato a vedere addirittura quattro film dell’orrore. Nell’ordine: Somnia, The Conjuring 2, It Follows.

Ora, contando che gli ultimi due della triade mi sono piaciuti, e neanche poco, quando mi sono seduto sulla mia bella poltroncina per vedere Lights Out ero proprio curioso di scoprire se sarei riuscito a farmi piacere il terzo horror di fila visto al cinema. Un record inimmaginabile all’epoca del fatidico giuramento.

E allora? La storia è stata scritta? Beh, quasi.

Ma partiamo dall’inizio. Come ha sapientemente esposto un mio caro collega in questo articolo, Lights Out nasce come un cortometraggio del regista svedese David F. Sandberg. Ora, non so se è perché il buon David vada a messa tutte le domeniche, o perché è semplicemente più fortunato di chi ha puntato due banane sul Leicester Campione d’Inghilterra, fatto sta che il suo corto fa il botto.

Succede quindi che passa di lì il buon James Wan (Saw, Insidious, The Conjuring ecc…), vede il lavoro di Sandberg e gli dice “Tié, mi avanzano giusto 5 milioni di dollari dai 300 miliardi che ho guadagnato con la mia roba, pigliali e gira un lungometraggio di Lights Out“.

Insomma, Sandberg vince alla lotteria e si ritrova ad essere il nuovo protetto di quello che è attualmente il Big Kahuna del cinema horror contemporaneo (non a caso, allo svedese sarà affidatala anche la regia del sequel di Annabelle).

Con i soldi di Wan, Sandberg prende l’idea di base del suo corto e ci costruisce sopra una storia piuttosto semplice, ma sicuramente efficace: Rebecca è una giovane donna dagli ottimi gusti musicali (e discretamente figa) che, dopo aver passato l’infanzia a temere un’entità di nome Diana che si manifestava nel buio, è riuscita a dimenticare e a farsi una vita lontano da casa. Ora però, quella stessa entità maligna sembra essere tornata a perseguitare il fratellino, ed in particolare la madre, che sembra conoscere l’origine di questa presenza malefica

Com’è facilmente intuibile, Lights Out se la gioca interamente sulla paura del buio, la più primordiale paura dell’essere umano. E, da questo punto di vista, Sanderberg dimostra di sapere il fatto suo, mettendo con successo l’oscurità al centro della storia. Il merito di tanta efficacia è dovuto principalmente al villain del film, Diana, rappresentata semplicemente come una sagoma nera come la morte, con i capelli lunghi, le mani che sembrano chele e gli occhi che brillano nel buio.

Sanderberg utilizza molto bene la sua personale versione dell’ Uomo Nero (in questo caso, Donna nera): Diana appare in fondo al corridoio, immobile. Quando la luce si accende, scompare all’improvviso, ma quando la luce si spegne, eccola ricomparire. Ed il giochino continua, fino a quando Diana non ricompare sempre più vicina alla vittima con il più classico jump scare.

Il problema è che la tecnica del jump scare è ormai vecchia di 300 anni e alla lunga può risultare fastidiosa. Perché alla sesta volta che le casse del cinema mi esplodono nelle orecchie per ogni cazzata, più che a urlare di paura mi viene da bestemmiare contro il proiezionista. Insomma, Sandberg ha talento e si vede, ma sembra ancora rifugiarsi troppo in questi mezzucci che, se sul momento ti danno una bella scossa di adrenalina, subito dopo svaniscono come polvere al vento.

In ogni caso, grazie ai giochi di luce che caratterizzano le sue apparizioni, Diana si rivela un villain-horror di tutto rispetto, inquietante ed estremamente memorabile. In un periodo dominato dai mostracci in CGI (vedi il ridicolo Uomo-Cancro di Somnia) e dall’esigenza continua di dover mostrare necessariamente il male in ogni suo dettaglio, le trovate di Sandberg meritano sicuramente un applauso.

Ciò che non consente a Lights Out di superare la soglia del “buon film” è sicuramente la sceneggiatura. La storia è interessante, e a tratti appassiona anche, però è davvero trattata in maniera abbastanza superficiale. Nonostante i personaggi non siano niente male, anche del punto di vista della recitazione (a parte il bambino, che più che spaventato sembra perennemente schifato, come se gli avessero fatto annusare merda di cane per tutto il film), i dialoghi sono piuttosto piatti.

Le stesse svolte della trama sono a tratti così semplicistiche e raffazzonate che non si possono non notare con tanto di facepalm. Sono quelli che un certo Leo Ortolani ha ribattezzato come i momenti MACOSA. Fortunatamente, questi attimi di smarrimento riescono a farsi assorbire rapidamente dagli eventi.

Va detto tuttavia che la sceneggiatura non è firmata da Sandberg, ma da un cane bastardo di nome Eric Heisserer, autore di più di un copione da galera, tra i quali quella del remake di Nightmare del 2010. Incredibilmente, proprio il film che aveva decretato il mio giuramento anti-horror. Giuro.

Ecco quindi che l’aspetto più criticabile del film è anche quello in cui il regista è meno imputabile. Sarebbe sicuramente interessante allora vedere Sandberg alle prese con un film interamente scritto da lui, per levarci il dubbio sull’effettivo talento di questo promettente svedese.

Comunque sia, Lights Out rimane un buon horror che sa spaventare, intrattenere ed intrigare. Certo, se state cercando un capolavoro, come minimo avete sbagliato indirizzo, ma non è che il mondo si debba necessariamente dividere in merda e in cioccolata.

C’è anche una piacevole via di mezzo. Che fra merda e cioccolata, francamente non so quale sia, ma va beh. Ci siamo capiti.

Se gli horror sono la vostra passione, fate un salto dai nostri amici di Film esageratamente da paura!

Roberto Lazzarini

25 anni, cresciuto fin dalla tenera età a film, fumetti, libri, musica rock e merendine. In gioventù poi ho lasciato le merendine perchè mi ero stufato di essere grasso, ma il resto è rimasto, diventando parte di quello che sono. Sono alla perenne ricerca del mio film preferito, nella consapevolezza che appena lo avrò trovato, il viaggio ricomincerà. Ed è proprio questo il bello.
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