Quando ho avuto la brillante idea di dire “ehi, potrei scrivere un pezzo su Little Britain, così anche sta settimana sono in orario e non vengo mangiato dai sensi di colpa” non ho messo in conto alcuni fattori importanti. In primis quello ovvio: questo articolo lo leggeranno due persone (una non sarà mia mamma), perciò lo sto fondamentalmente scrivendo per me. La seconda però è pure più infingarda, perché mi sono subito ricordato un elemento cruciale: parlare di Little Britain per me è un po’ come parlare di Parks and Recreation, cioè entra subito in gioco un grosso valore affettivo.
Anzi, in realtà la situazione è un po’ più complessa (semicit.). Il motivo? Perché, che ci crediate o no, io con Little Britain ci sono cresciuto. Tutta colpa della mia cara genitrice, dato che le serviva qualcosa che mi aiutasse ad imparare bene l’inglese quando ormai la sigla di Magic English stava iniziando a trapanarmi i coglioni timpani.
Quindi perché non passare dai cartoni animati alla gerontofilia? Da Paperino ai travestiti? Da Topolino ai falsi invalidi? Da Pippo a finti gay? Da… ok, avete capito l’antifona.
Anche perché ho già scritto tutte queste parole senza spiegarvi cosa sia realmente Little Britain. Lo dico a quei poveretti capitati qua per caso: è una serie televisiva britannica, dove due comici (Matt Lucas e David Walliams, sempre siano lodati) impersonano una miriade di personaggi in altrettanti sketch. L’obbiettivo? Dissacrare ogni aspetto della cultura british con infinita arguzia. Il risultato? Riuscire a far ammazzare dal ridere anche chi, come la maggior parte di noi, di quella cultura sa ben poco.
È innegabile: la loro comicità, unita alla stupenda follia dei personaggi, riuscirebbe a far ridere anche un pendolare di Shanghai o un cafetero di Bogotà (ma non quello che pensate voi). Perché Little Britain, nonostante tratti i tanti vizi e le pochissime virtù di un’isoletta afflitta dalla pioggia, è universale. Universale come i suoi stereotipi, come il suo cinismo, la sua brutale schiettezza o le sue situazioni ai limiti del credibile. E quindi, proprio per quello, irresistibili.
Ma la vera forza di Little Britain sta proprio nei due creatori, una coppia di matti affiatati, un vulcanico duo di non ordinaria follia. David Walliams (amore della mia vita, ho iniziato a guardare Britain’s Got Talent solo perché c’era lui come giudice. E cazzo se ne vado fiero) e Matt Lucas si scambiano continuamente le maschere, passando da uomo, donna, gay, vecchio, drogato, travestito, obeso e via così, creando un amalgama perfettamente instabile pronta a creare situazioni comiche dal quotidiano all’inverosimile, tenendo in bilico gli stereotipi che Moira Orfei levati.
Ed ecco quindi il secondo motivo della perfezione di Little Britain: i personaggi. I due comici ne hanno creati talmente tanti che bisognerebbe quasi fare una classifica sui migliori. Magari, in futuro, chissà. Comunque, sono riusciti a farlo in sole tre stagioni, con 36 episodi da mezz’ora l’uno. Non male eh? Ma Lucas e Walliams non si sono mai accontentai, mantenendo un nucleo fisso di personaggi (Lou & Andy, Vicky Pollard, Marjorie Dawes con i suoi Fat Fighters, Emily – o Eddie, come preferite – Howard eccetera), aggiungendone o togliendone parecchi lungo tutte e tre le stagioni. Alcuni appaiono solo per un episodio, altri diventano “canonici” a partire dalla seconda o dalla terza. Insomma, una sperimentazione continua su loro stessi e sul pubblico, nonostante i tempi ristretti e i modi… beh… diciamo poco ortodossi.
Perché Little Britain è infarcito di black comedy, di risvolti drammatici (soprattutto nella terza stagione), di commedia nel verso senso della parola (quasi all’italiana), ma anche di elementi grotteschi al limite del trash. Come vomito a fiumi, vecchi annusatori di orifizi anali e donne morbosamente obese che corrono nude. Ma non fatevi ingannare da queste sottigliezze, sono solo una piacevole crosticina da grattare via ogni tanto. Little Britain scava a fondo nell’Inghilterra, nei due comici e in noi stessi, facendoci capire che quegli stereotipi li vediamo anche dietro casa, li viviamo sulla pelle e, forse, non riusciamo ad abbandonarli del tutto.
La serie riesce infatti a non scadere nell’autocitazione, nonostante qualche catchphrase o situazione comica che resta uguale. Little Britain ha il grande pregio di giocare con sé stessa, sfilacciando le sue stesse gag fino a ricostruirle dal nulla, senza perderne la linfa originale. Per questo non stanca mai, per questo ne vorremmo ancora e ancora (siano lodate infatti le due “fuoriserie” Abroad e USA). Scatta quella magia propria di Boris, nonostante le unità narrative si esauriscono in cinque minuti nello stesso episodio.
Little Britain ti fa affezionare a gente che si finge pazza, a gay non troppo sicuri di esserlo, a ipnotizzatori tristemente impediti, a vecchie razziste, a impiegati di banca da prendere a cinghiate sui denti dalla mattina alla sera. Credetemi, non è facile trattenere il citazionismo folle, ma ci sto riuscendo con una certa eleganza.
L’unica nota dolente? Essere stata la fonte di ispirazione per I soliti idioti. E, per nostra fortuna, le due cose non hanno niente in comune e io non ne parlerò mai più. Mai. Più.
Quindi cosa aggiungere ancora? Nulla che non possiate trovare su Wikipedia. A parte il record di vendita stabilito dai suoi DVD, quello ve lo voglio dire prima io. Perciò correte a vedere Little Britain, farà bene alla vostra anima (malvagia, ma quello è tutto un altro discorso).