
Little Miss Sunshine: il bello nel brutto dell’America
Togliamoci subito il dente: stiamo parlando di una delle commedie più intelligenti e sofisticate degli anni duemila.
La cosa è confermata, con buona pace di tutti gli indie del mondo, dal successo, enorme e trasversale, che questo film datato 2006 ha saputo riscuotere. È difficile trovare, infatti, qualcuno che non apprezzi Little Miss Sunshine, perché il film è strutturato su più livelli; un po’ come i quattro sensi della scrittura.
Innanzitutto c’è il senso letterale, ossia la trama ed i suoi personaggi, e già quelli fanno impazzire grazie all’ottima prova di tutti gli attori. Sono carichi di spontaneità, e l’impressione è quella che si siano divertiti come matti a girare il film. Ma come poteva essere altrimenti?
“LITTLE MISS” TRAGICOMMEDIA
Ci troviamo nella ridente Albuquerque, capitale del ridentissimo e afoso New Mexico (vi ricordate mica una certa serie ambientata ad Albuquerque?): una landa desertica di illusioni nella land of opportunities.
La famiglia Hoover rappresenta gli Stati Uniti tutti, con le loro promesse e le loro crepe, forse insanabili, che ci vengono sbattute davanti agli occhi come fossero state sempre lì: i personaggi sono da galleria delle risa e degli orrori insieme. Una serie di carrellate ironiche ce li fa conoscere: Richard, capofamiglia, è l’ottimista che fallisce sul nascere, perché non si rende conto che il suo programma in nove passi per essere dei Vincenti (perché “il mondo si divide in due categorie”…) non è solo illusorio, ma rasenta il grottesco. Sheryl, la moglie, è sull’orlo di una crisi di nervi, proprio a causa di quei dannati nove passi; e come se non bastasse, si deve occupare del fratello Frank (un immenso Steve Carell in un ruolo atipico per lui, almeno allora), che ha appena tentato il suicidio. E badate bene: stiamo parlando del “più eminente studioso di Proust degli Stati Uniti d’America”, come lui stesso ci ricorderà più volte spingendo il pulmino che è il simbolo del film e della famiglia.
Frank farà coppia con Dwayne (Paul Dano), rampollo maggiore degli Hoover, che ha un piccolo problema, che lo accomuna evidentemente allo studioso di Proust: ha fatto voto di silenzio, non dice una parola. Parla attraverso un bloc-notes, e comunque parla poco. In camera sua c’è un lenzuolo con disegnato il faccione baffuto di Nietzsche. E non diciamo altro.
Poi c’è il nonno Edwin (Alan Arkin al massimo della forma) che, tra un’imprecazione ed una sniffata di eroina, sta preparando la piccola Olive al concorso “Piccola Miss California”.
Olive è la personificazione migliore che si possa immaginare dell’innocenza infantile: ha sette anni, è piuttosto bruttina e grassottella, ma consuma le sue videoregistrazioni di Miss America continuando a coltivare quel sogno. Quando si presenterà l’occasione per coronarlo, sarà tutta la famiglia (volente o nolente) ad accompagnarla in California, a bordo di un furgone Volkswagen giallo che più gira più si scassa.
E, da quel momento, sarà bildung, sarà formazione, per tutti i personaggi di Little Miss Sunshine: il furgone rappresenta la famiglia come istituzione, con i suoi limiti e le sue ipocrisie. Si tratta della terra di nessuno dove ciascuno si trova costretto ad avere a che fare con gli altri: Dwayne deve comunicare in qualche modo, Frank deve uscire dal suo guscio e riconnettersi con il mondo, il nonno sembra solo voler fare incazzare tutti quanti (quando in realtà è ovviamente lui il solo ad aver capito tutto), Richard deve incastrare il suo ottimismo e i nove passi nel fatto che il suo progetto sta fallendo, non trovando acquirenti, e Sheryl deve capire se vuole ancora amare Richard.
Parliamo quindi di una non-famiglia, un nucleo disastrato, che quanto più cerca di apparire “normale”, “accettabile” agli occhi della società, tanto più si risolve a combinare disastri o a incorrere in sfighe quasi incredibili, da commedia degli equivoci.
Ma la sfiga, qui, non è cieca: sta cercando di insegnare qualcosa a queste persone. La semplicità, l’onestà, la dignità insita nel non vergognarsi di se stessi, la libertà di essere chi e come diavolo si vuole. La vita spesso si presenta come un concorso di bellezza, ogni cosa può diventare un “Piccola Miss California”: sta a ciascuno di noi non permetterlo. Ecco cosa insegna il furgone giallo scassato. A loro e a noi.
E ce lo insegnano due registi ed uno scrittore indipendenti (rispettivamente, Jonathan Dayton, Valerie Faris ed il grande Michael Arndt), nel modo migliore che si possa immaginare: con leggerezza, sorridendo e a volte proprio sghignazzando di gusto.
Perché sarà una risata che li seppellirà, giusto?
Una risata accompagnata, in Little Miss Sunshine, da un bel numero di musica e di ballo “osceni” eseguito sul territorio delle persone più false che ci siano: le reginette di bellezza.
Una risata, solo una risata, senza incazzarsi (che non ne vale la pena), per trovare la bellezza vera.