L’unica cosa peggiore del rimanere delusi a causa delle alte aspettative, è il rimanere delusi nonostante le basse (bassissime) aspettative.
Le recenti vacanze mi hanno dato il tempo per recuperare molti bei film che da tempo aspettavo di vedere, ma mi hanno anche lasciato tempo da buttare guardando film e serie tv che in circostanze normali non avrei mai preso in considerazione, come la recente serie Netflix Living with Yourself.
La serie gioca col tema del doppio. Miles (Paul Rudd), nel mezzo di una crisi personale e professionale, tramite il suggerimento di un collega, si rivolge ad un centro benessere in grado di rimettere a nuovo i propri clienti. Il centro si rivela essere però un laboratorio di clonazione in cui, tramite manipolazione del DNA, vengono create copie “migliori” degli originali e questi ultimi vengono eliminati. Tuttavia, a causa di un errore, Miles si ritrova a dover convivere con il suo doppio.
È inutile girarci attorno, Living with Yourself è mediocre.
Esattamente come il personaggio interpretato da Paul Rudd, questa mediocrità si sdoppia come un clone, è ovunque, esce anche dalle fottute pareti, e benché sia innocua, finisci col domandarti se non sia decisamente troppo.
Il tema del doppio e il cinema sono sempre andati molto d’accordo e l’incontro ha portato spesso ad ottimi risultati, non in questo caso però.
Come un déjà vu, a partire dai suoi personaggi stereotipati fino ai retroscena scontati, Living with Yourself sa di già visto. Il capo severo e autoritario ma pronto a ricompensarti con un “dacci dentro campione”, il classico collega d’ufficio invidioso e sfigato, la giovane segretaria attraente, ed infine Paul Rudd stesso: uomo sulla quarantina, in preda ad una crisi di mezza età, che ha perso di vista le cose importanti della vita per poi capire che tutto quello che cercava era sempre stato lì fin dall’inizio.
L’universo in cui si muove Rudd somiglia notevolmente alla simulazione di realtà al 5% di potenza in cui finisce Jerry Smith nell’episodio quattro della prima stagione di Rick & Morty, con il capo che esclama solo “yes” e una schiera di altri babbioni che pronuncia random frasi predefinite. Non è difficile immaginarsi il personaggio di Paul Rudd ascoltare un po’ di “musica umana” su radio Terra durante il tragitto da casa a lavoro.
Nonostante le analogie con Jerry Smith ed il tono patetico che permea la serie siano un chiaro segnale di pericolo, le azioni di Miles, le motivazioni che lo portano ad agire in un certo modo e le reazioni degli altri personaggi a queste sue azioni, lasciano in ogni caso basiti. La nostra sospensione dell’incredulità viene costantemente presa a botte senza alcuna pietà.
Nei primi dieci minuti del primo episodio, Miles dilapida tutti i risparmi della famiglia (50,000 dollari), in quello che appare come uno squallido centro massaggi, per una fantomatica cura di cui non sa assolutamente una mazza e il motivo alla base di tutto questo è che la sua carriera sta avendo un comunissimo periodo stagnante e ha difficoltà a concepire un figlio con sua moglie.
Quando al penultimo episodio, dopo aver ormai assistito ad un immenso mare di cazzate, colmo di incongruenze, iniziamo a credere che nulla possa più sorprenderci, Paul Rudd si esibisce in un balletto in coppia con la moglie che è secondo per bruttezza solamente al ballo di Johnny Depp in Alice in Wonderland.
Alla fine, la serie si limita ad indagare temi come la ricerca della felicità e la conseguente frustrazione, le relazioni e il concetto (banale) che non possa esistere il bene senza il male, vanificando la forza del tema del doppio, che poteva essere sfruttato per trattare temi un pizzico più profondi mentre finisce con l’essere un semplice veicolo per fare qualche battuta da due soldi e nulla più.
Il risultato è che Living with Yourself finisce col rivelarsi l’ennesimo ibrido tra dramma e commedia dove si ride quanto in un dramma e gli argomenti sono trattati superficialmente come in una commedia.
L’ottimo montaggio, che alterna continuamente i punti di vista di Miles, il suo clone e la moglie, in maniera piuttosto originale, è l’unico elemento che consente di tenere in piedi la baracca, ma non può bastare a giustificare il prodotto nel suo insieme né tantomeno ad avere la minima fiducia per una seconda stagione, direzione che i produttori sembrano invece decisi a voler percorrere.
In vista di questa possibile seconda stagione, l’unico augurio è che la serie sia basata su fatti vagamente reali e un centro benessere capace di sfornare versioni migliori di ognuno di noi esista, cosicché una versione migliore del creatore della serie Timothy Greenberg possa apportare le giuste correzioni finché la baracca si regge in piedi.