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Lost: com’è vederlo oggi per la prima volta?

Consideratemi il vostro amichevole topo di laboratorio di quartiere (Eloise?). Mi sono sottoposta a un esperimento scientifico: vedere Lost per la prima volta nella torrida estate 2022. Arrivare all’età adulta vergini di una pietra miliare ha i suoi vantaggi, uno su tutti la possibilità di cincischiare sul MacGuffin elucubrando come nemmeno Daniel Faraday dopato.

So che vi frullano in testa centinaia di domande: “Come hai fatto a schivare Lost ai tempi?”, “Che diavolo ci facevano poi gli orsi polari sull’isola?”, “Non ci farai mica uno spiegone sul finale, vero?”, e così via. Andiamo con ordine: non ci saranno spoiler e caduti.

Lost: cosa ne sapevo prima

Nessuno nel 2004 mi ha caricata su un sottomarino per farmi condurre esperimenti scientifici sui campi elettromagnetici di un’isola deserta, quindi ovviamente ero al corrente dell’esistenza di Lost. Non saprei dire perché non l’ho visto ai tempi: forse non credevo ancora abbastanza nelle serie TV da santificare sei anni di vita alla causa. Forse mi infastidiva che tutti me ne parlassero. Forse non volevo farmi risucchiare. Boh? Comunque lo saltai a piè pari.

lost jj abrams abc netflix 2018
Non so voi ma io per Jack solo schiaffi, comunque.

Siccome sembrava un’esperienza decisamente frustrante per lo spettatore ricordo di aver deciso, all’epoca, che lo avrei visto una volta concluso. Ma il finale di Lost generò un’insurrezione popolare paragonabile solo alla presa della Bastiglia: più che delusione, una vera e propria incazzatura violenta. Gente che, come nei migliori divorzi, urlava “J.J., ti sei preso gli anni migliori della mia vita!”, e spaccava vetrine con le mazze da baseball. O forse ho ricordi confusi degli anni ‘2000, va’ a sapere.

Accantonai il proposito di recuperare Lost, felice di aver seguito il mio primo istinto. Fino a quella sera di qualche settimana fa, mentre spulciavo oziosamente Netflix come un macaco spulcia la compagnaQuasi quasi

L’esperienza Lost

Ho passato settimane a vivere un deja-vu: giuro, io Lost non l’avevo mai visto ma riconoscevo immediatamente ogni luogo narrativo, puntata dopo puntata. Sapevo i nomi dei personaggi prima ancora che qualcuno si degnasse di pronunciarli. Sapevo prevedere le dinamiche, i cambi di punto di vista, l’andamento della struttura e del montaggio.

Non ho doti di preveggenza: ero semplicemente preparata all’imprevedibile. L’ho visto consapevole di che tipo di storia mi aspettava. Mi sono resa conto che Lost, come fenomeno pop culture, si era insinuato nel mio subconscio a più livelli, ai tempi della messa in onda. La prima considerazione che vorrei fare quindi è una conferma per i fan della serie: Lost fa parte di un immaginario collettivo generazionale, gioca con archetipi narrativi che viaggiano sotto pelle ai nati negli anni ’80. Vi scrivo solo un’altra parolina di quattro lettere: Myst. Sono stata catapultata nella stessa atmosfera: un’altra isola misteriosa, senza risposte, solo un percorso – free roaming ante litteram – fino all’enigma successivo.

Ma in cosa ho guadagnato, a vivere questa esperienza fuori tempo massimo, e cosa mi sono persa?

I pro del binge watching nel 2022

Perdonerete il mio feticismo ma per l’amor del cielo e di tutto ciò che è caro: il doppiaggio. Non ringrazierò mai abbastanza la mia buona stella per aver evitato il doppiaggio televisivo obbligato di Lost. Sono contraria a prescindere ma nello specifico è una serie che non può essere guardata doppiata: la sua forza sono i personaggi. La forza dei personaggi si basa sulla loro caratterizzazione. E la loro caratterizzazione ha un’impronta linguistica FORTISSIMA, direi quasi fondamentale alla comprensione stessa del personaggio.

Non parlo solo delle diverse provenienze geografiche, anche se personaggi come Claire e Desmond (con i rispettivi e marcatissimi accenti australiano e scozzese) una volta doppiati perdono in partenza. Mi riferisco anche al linguaggio proprio di ciascuno, su cui in fase di sceneggiatura è stato fatto un lavoro straordinario e che inevitabilmente in una traduzione frammentaria si distrugge. I continui giochi di parole e riferimenti letterari che fa Sawyer (unico essere vivente sull’isola ad aver mai aperto un libro), le scelte semantiche misurate di Locke, le sfumature nelle promesse di Ben, le incomprensioni linguistiche di Jin e Sun… vedere tutto questo doppiato è vedere qualcos’altro. Molto di più rispetto a un film: la traduzione della sceneggiatura di un film avviene in un tempo circoscritto, in modo coeso. Impossibile ricercare la stessa compattezza stilistica spalmando il lavoro su sei anni e svariate mani.

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Sawyer: l’intellettuale moderno incompreso. L’uomo di cui nessuno capisce le battute.

Un altro punto a favore del Netflix binge watch è sicuramente la comprensione: ricordo la gente che dava testate sui muri perché di Lost non ci capiva una fava. Mi sembra umano. Non so quante ri-visioni fosse necessario autoinfliggersi, prima dell’inizio delle nuove stagioni, per rientrare con tutte le scarpe nei meccanismi narrativi su più piani temporali e negli intrecci tra i personaggi. Visto diligentemente sera dopo sera Lost, nonostante l’andamento poco lineare, non fa caduti: fila che è una meraviglia, si capisce tutto alla prima, non lascia questioni irrisolte. Lo stesso, controverso, finale chiude con una simmetria deliziosa e perfetta e la “soluzione” di ogni mistero appare mano a mano chiara e abbastanza immediata.

I contro del binge watching nel 2022

Ohimè, ci sono anche tasti dolenti, nella visione di Lost oggi e a ritmo Netflix. Il rovescio della medaglia. Lo Yin dello Yang, il Fumonero del Jacob, ecc.

Il primo, manco a dirlo, è la perdita irrimediabile dell’esperienza collettiva, della condivisione, dell’elucubrazione di gruppo: chi ascolterà le mie stanche parole se OGGI mi serve qualche seduta di terapia amicale sul finale di Lost? Siamo seri. Ho perso il treno. Ho perso il disagio di massa, le meme, le teorie: è un male? Anche sì, dai: hanno fatto parte dell’esperienza di fruizione di chi l’ha visto al momento giusto, sono strettamente legate al ricordo degli spettatori.

Gli stessi tempi di visione sono importantissimi: dilatare l’esperienza di visione su sei anni vuol dire farla diventare parte della propria vita con una profondità che in poche settimane, semplicemente, non può avere. I cliffhanger, l’attesa, lo scazzo, la voglia di lanciare piatti al muro DOVEVANO essere al centro di quell’esperienza: sono parte integrante di come la serie è stata scritta e concepita. La loro assenza fa sì che oggi, di fila e in poche serate, guardiamo uno spettacolo completamente diverso. Ci emozioniamo per motivi diversi, con ritmi diversi, senza tempi di sedimentazione.

L’originalità della serie era un suo punto di forza: la volontà di dare in pasto allo spettatore televisivo un prodotto non solo di livello cinematografico, ma anche dalla trama sottile e intricata, con più livelli di lettura. Un unico predecessore illustre: Twin PeaksUn’ammucchiata di successori. Diciamo che oramai abbiamo lo stomachino scafato e che anche quell’elemento di strappo si perde nel mare magnum di un’industria dell’intrattenimento che viaggia, oggi, su un livello anche molto alto.

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Fateci caso, i protagonisti di Lost sudano solo sul petto. Sempre.

La visione “compatta” rende più evidenti le piccole (e normalissime, su un impianto corale così esteso) sbavature che nella visione dilatata dovevano essere invisibili: protagonisti che spariscono a caso (probabilmente per scazzi improvvisi tra attori e produzione?), profezie perse per strada, personaggi che di tanto in tanto colano a picco nella coerenza interna. Mi è rimasto impresso uno scambio di battute tra Hugo e Sawyer: Hugo cita Star Wars (come fa spesso) e Sawyer gli chiede chi sia Anakin. Sul serio, fate? Sawyer, che è per tutta la serie l’araldo e portavoce supremo della popcultura del Novecento, per cinque minuti diventa l’alieno che non ha mai visto Star Wars? E così via.

In una visione 2022 balzano all’occhio l’intro fatta con Publisher ’95 e gli effetti speciali sciagurati tipici dei 2000: per fortuna non ne è stato fatto abuso e il tutto rimane nello spettro del tollerabile, ma la sequenza in computer grafica dell’isola sommersa all’inizio della sesta stagione è una mazzata sul cuore. Per un attimo mi è sembrato di giocare a Tomb Raider 2. Il “2” era tanto per essere generosi. Ora perdonatemi un secondo che vado a tirare fuori il maggiordomo dal frigo.

Cosa mi porto dietro, di Lost?

Tirando le somme, mi porto dietro la malinconia di non averlo visto al momento giusto e la debole soddisfazione di avervelo potuto raccontare con occhi freschi.

La storia non è invecchiata: la metafora religiosa è ancora efficacissima, puntuale nell’allegoria, comprensibile, attuale. L’ambientazione su un’isola semideserta non fa pesare l’assenza delle tecnologie contemporanee (un elemento che mummifica spesso nel passato remoto film della stessa epoca o quasi in cui, per esempio, la storia non partirebbe neanche se i protagonisti avessero un cellulare).

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Un signor finale.

Il senso “di famiglia” che si prova alla fine, congedandosi dai personaggi, continua a funzionare. E mi direte: “Per forza, con quei flashback paraculi delle ultime due puntate, che la fotografia l’ha firmata Duccio tornando dal set degli Occhi del cuore“.

Ma lo sappiamo com’è J.J.: ci sguazza, nella paraculaggine, quello là. Ci fa girare in tondo come criceti, ci brutalizza il cervello il giusto, si diverte a sollazzare il fanciullino che è in noi. Tutto quello che vi pare.

Tant’è torniamo sempre a casa contenti. Potete negarlo?

Sara Boero

Sua madre dice che è nata nel 1985, a lei sembrano passati secoli. Scrive da quando sa toccarsi la punta del naso con la lingua e poco dopo si è accorta di amare il cinema. È feticista di Tarantino almeno quanto Tarantino dei piedi. Non guardatele mai dentro la borsa, e potrete continuare a coltivare l'illusione che sia una persona pignola.
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