
Love Actually 2017: perché il divano è meglio delle cene di classe
Le cene di classe sono quella cosa che può divertire da adolescenti, far sorridere da universitari, causare l’orticaria in qualsiasi essere senziente che abbia superato il quarto di secolo. Belle ma non ci vivrei, come si suol dire. Ecco, il barbosissimo simil-sequel di quel capolavoro di Love Actually è proprio questo: una sviolinata che non dice nulla di interessante, resta un po’ sullo stomaco, e in fondo era meglio rimanere sul divano e spararsi una puntata di una qualsiasi serie tv.
Procediamo con ordine: perché proprio una reunion, ben quattordici anni dopo? Per vedere imbolsimento e calvizie dei vecchi compagni, certo, ma anche per una buona causa – un po’ come quando si decide di andare a mangiare in un ristorante carissimo e pure scarso, però parte del conto va in beneficienza: e siccome in Inghilterra con le buone cause ci campano, ecco a voi il Red Nose Day. Il 24 marzo, in sostanza, potete genericamente decidere di donare qualcosa per le altrettanto generiche comunità più sfortunate. Splendido, ma che c’entra Love Actually? Beh, c’entra abbastanza, dal momento che al Red Nose Day è strettamente legato il Comic Relief, associazione very british di attori e personalità del mondo dello spettacolo e della cultura.
Comunque: i quindici minuti scarsi e sbiaditi del remake di una delle migliori commedie romantiche di sempre si aprono con Mark (Andrew Lincoln), l’uomo che con i suoi cartelli ha fatto sognare milioni di pulzelle. È ingrassato, porta la barba ed ha finalmente dimenticato la bella Juliet (Keira Knightley), la quale, come ogni donna che si rispetti, è visibilmente infastidita dalla moglie del vecchio amante. E sfido: è nientemeno che Kate Moss.
Già, ma tutti gli altri? È presto detto: Hugh Grant continua a fare il primo ministro, a ballare, pur con qualche acciacco, e a fare discorsi alla nazione impregnati di amore e ironia – e onore al merito, è il solo che riesce nell’intento di risultare ancora straordinariamente adorabile. C’è poi Liam Neeson con la solita espressione malinconica, ma per fortuna il figlio ha una lieta nuova da annunciargli; Colin Firth, che in tutti questi anni non ha imparato una parola di portoghese ma continua ad essere innamoratissimo della sua famiglia; Rowan Atkinson, commesso meticoloso che non riesce a scrollarsi di dosso i tic da Mr. Bean; e dulcis in fundo Bill Nighy, vero pilastro di Love Actually. Assente all’appello, per ovvie e tragiche ragioni, Alan Rickman, e di conseguenza Emma Thompson, e non si può dire che la loro assenza non si senta. Ma si sa, di solito in queste rimpatriate sono sempre i migliori a mancare. Se così non fosse, verrebbe a mancare quell’amarcord che dà un senso alle cene di classe.
Ecco, il sequel di Love Actually è proprio questo: il disseppellimento di un album di foto ormai ingiallite, e il tentativo disperato di colorarle in technicolor. Apprezzabile l’intento, un po’ meno il risultato. Epperò non prendiamoci in giro: ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha affrontato la raccapricciante pizzata della 4° C sperando di trovare il secchione a mendicare per strada, la bella della scuola a combattere con i figli e i chili di troppo, lo strafigo perso nel tunnel della droga.
Love Actually versione 2017 è così: un “vediamo cosa siamo diventati”, che lascia in bocca lo stesso sapore amarognolo della capricciosa nella trattoria di periferia. Andate a rivedervi l’originale, e vi sembrerà di star cenando da Chez Maxim.