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L’ultima trilogia di Sebastián Lelio, il regista che ci fa vedere quello che non vogliamo vedere

Con Disobedience, Sebastián Lelio completa il trittico iniziato con Gloria (2013) e Una donna fantastica (2017), mostrando al mondo quello che il mondo non vorrebbe vedere.

CHI È SEBASTIÁN LELIO?

Momento Wikipedia ON – Per chi non lo sapesse, Lelio è l’ultimo regista vincitore dell’Oscar per la categoria “miglior film straniero” con la pellicola Una donna fantastica (Una Mujer Fantástica) distribuita nel 2017 – Momento Wikipedia OFF

sebastian lelio daniela vega
Sebastián Lelio e Daniela Vega agli Oscar 2018

In molti l’hanno definito un Oscar “politico” e potrei anche dirmi d’accordo ma con due precisazioni: 1. Chi ha detto che un Oscar non possa al contempo essere politico e mertitato? 2. Con tutta probabilità il 90% di chi lo dice non sa manco dove sia il Cile, figuriamoci la sua situazione politico-sociale. Gioia e dolori dei film prodotti per un pubblico internazionale ma fortemente legati all’identità di una nazione e della sua cultura. Quanti hanno schifato La grande bellezza senza neanche capirne lontanamente il senso?

Il punto, sembra una banalità, ma sta proprio qui. È fondamentale chiedersi da dove viene un regista, un film, una idea prima di riempirsi la bocca di parole come fotografia, sceneggiatura regia. Non c’è niente di più deprimente dei commenti a sproposito nei confronti del lavoro di chi prova a mettere le mani nella merda (o era le mani in pasta?).

E il regista cileno vuole fare proprio questo, portare sul grande schermo storie che danno fastidio, che fanno riflettere e che mostrano una volta per tutte quelle situazioni di cui sappiamo l’esistenza ma che preferiamo far finta che non esistano.

ATTO UNO. GLORIA

Il primo capitolo della trilogia sulle relazioni di Sebastián Lelio è Gloria (2013), film che parla appunto di Gloria (Paulina García), una donna di mezza età divorziata e con due figli adulti e indipendenti. La solitudine fisica e psicologica della protagonista è rappresentata con una serie di continui tentativi di riempire il proprio tempo libero con svaghi, per così dire, fuori dall’ordinario per una donna della sua età.

E il proposito del regista è proprio quello di smontare i luoghi comuni attorno alle relazioni umane. Andare contro alle storie d’amore e di vita stereotipate con storie reali e strampalate, esattamente come quelle che capitano a tutti noi. Gloria non è lo stereotipo della donna annoiata che non ha più nulla da chiedere alla vita, è la rappresentazione della donna che se ne frega allegramente della propria carta d’identità e che vuole vivere ogni momento della sua vita tutt’altro che al capolinea. Il fatto che abbia 58 anni è quasi un dettaglio superfluo perché la stessa storia di amore travagliato è quella che potrebbe investire due ventenni alle prese con i primi amori.

Non c’è nessuna relazione tra l’età matura e la maturazione delle relazioni affettive: facevano schifo sognare e soffrire da giovani e continuano a fare schifo sognare e soffrire anche da meno giovani.

Gloria è un film fresco e brillante, carico di ironia e amarezza allo stesso tempo, provocatorio (nel vero senso della parola) e capace di mettere lo spettatore di fronte alle proprie stupide convinzioni. Facendole crollare una dopo l’altra. A mio modesto parere il più acerbo ma vero dei tre. E tra l’altro è il film che porta per la prima volta Sebastián Lelio al di fuori dei confini del Cile, venendo applaudito al Festival del Cinema di Berlino di quell’anno.

Diciamo pure che Gloria è il trampolino di lancio dell’allora giovane regista, che capisce che con il suo cinema è in grado di mostrare quello che succede nella vita delle persone in maniera diretta e senza filtri.

ATTO DUE. UNA DONNA FANTASTICA

La consacrazione di Lelio tra i registi internazionali arriva con il film che giustamente trionfa agli Oscar 2018. Come già premesso, Una donna fantastica è un film politico, nel senso di un’opera in grado di dare un contributo significativo al dibattito politico di un Paese come il Cile.

La Santiago di Sebastián Lelio è un luogo estremamente realistico, popolato dalle più disparate forme di vita che si cercano, si inseguono, si trovano, si amano e si torturano. È il luogo delle contraddizioni, dei grattacieli di acciaio e vetro e del bigottismo cieco, della gioventù e del classismo, del capitalismo economico e del proibizionismo sentimentale.

Quale teatro migliore per mettere in scena il travaglio di una donna transgender che si ritrova a dover affrontare da un giorno all’altro il lutto per la morte del proprio compagno Orlando e in contemporanea il giudizio della famiglia dell’uomo che la tratta letteralmente come uno scherzo della natura? Ma la scelta cinematografica di Lelio è lontanissima dalla tragicità che si potrebbe immaginare. Marina (Daniela Vega) è una donna segnata ma forte, decisa a continuare a lottare per essere la persona che è e difendere i sentimenti che provava per l’uomo che amava. Uno dopo l’altro si abbattono su di lei i pregiudizi della gente, frutto di stupidità e totale mancanza di adattamento ad una società che si è evoluta senza dover chiedere il permesso di farlo.

Eppure lei non si lascia fermare neanche dagli attacchi più vili e codardi, continuando a vivere illuminata da una luce interiore che emerge in ogni singolo fotogramma del film. Per questo l’Oscar di Lelio si può definire “meritatamente politico”, perché è chiaro come il regista abbia voluto andare a stuzzicare quegli strati di società che ancora oggi si scandalizzano per l’esistenza di persone omosessuali o transgender. E che purtroppo in Paesi come il Cile non si limitano solo a schernire o diffamare chi non la pensa come loro.

Per quanto mi sia piaciuto il film, ammetto che rimane un gradino sotto a Gloria, sia per sceneggiatura che per originalità, mentre Daniela Vega se la gioca alla pari con Paulina García, quasi ricalcando alcuni dei suoi aspetti. Due protagoniste che fanno da ingredienti base per il terzo e ultimo capitolo della trilogia.

ATTO TRE. DISOBEDIENCE

L’ultimo film di Sebastián Lelio è l’adattamente cinematografico del romanzo omonimo della scrittrice inglese Naomi Alderman. È la prima produzione internazionale del regista e porta sullo schermo la storia di una comunità ebraica londinese, con tutte le sue contraddizioni.

Ronit (Rachel Weisz) è la figlia di un rabbino molto stimato, costretta a scappare negli Stati Uniti dopo che il padre scopre i suoi orientamenti sessuali. Questa cosa la emargina senza scampo dalla comunità religiosa, che non vorrebbe avvertirla neanche della morte del padre. Il sentimento di amore che prova per Esti (Rachel McAdams), però, non è mai scomparso e nel vederla di nuovo dopo anni crolla il castello di carte dentro il quale aveva cercato di rifarsi una vita.

Il regista si allontana dal suo Cile per la prima volta ma continua ad affrontare i temi a lui cari, quelli delle persone costrette a vivere i propri sentimenti nascoste dal resto del mondo, nelle stanze dei motel e nei parchi giochi, nottetempo. Persone a cui è stato negato il diritto di vivere alla luce del sole. A cui non è permesso amare coloro che amano e che sono costrette a scappare senza una meta da raggiungere.

Il film, in sé, è un prodotto molto valido, ben girato e molto ben interpretato dal terzetto di protagonisti. Dei tre è senza dubbio il più “digeribile” ma anche quello che risulta più “costruito” e che quindi si allontana dalla sincerità del regista. Senza dubbio ha il grande merito di portare a compimento il processo di narrazione delle donne da parte del regista cileno.

LE DONNE E LA MORALE DI SEBASTIÁN LELIO

Il filo conduttore dei tre film sono le protagoniste e le loro relazioni tragiche. E questo non per colpa degli uomini ma per colpa degli “uomini” intesi come esseri umani, come società. I film di Sebastián Lelio non sono femministi, sono descrittivi di realtà tangibili e contemporanee, che hanno come protagoniste donne nelle quali potrebbe immedesimarsi chiunque. Donne che lottano contro i pregiudizi e che non vogliono arrendersi a dover fare quello che la “morale comune” dice loro di fare.

Gloria è una donna sola, in cerca di una persona con cui condividere il tempo lasciato libero dalle preoccupazioni giovanili. E lo fa in maniera quasi primitiva, istintiva, senza mai fermarsi a riflettere su cosa stia facendo per paura di venire sommersa dalla consapevolezza della propria solitudine. Che poi è anche un po’ quello che vorrebbe fare Marina, incapace in un primo momento di metabolizzare la tragicità dell’accaduto. La componente riflessiva comincia ad apparire con le visioni di Orlando che la guidano nel percorso di distacco dal proprio amore accettando gradualmente la scomparsa dell’uomo. Trasformazione che viene completata da Ronit e Esti, che si ritrovano a pensare insieme al senso del loro rapporto. Entrambe con alle spalle tentativi di palliare il vuoto reciproco lasciato dall’assenza dell’altra, salvo infine giungere alla medesima conclusione.

Che poi è la conclusione a cui vuole farci arrivare il regista, ovvero che non c’è via di scampo al bisogno di amore dell’essere umano, indipendentemente dalla propria età, genere e orientamento sessuale. Perché nessuno dovrebbe essere costretto a nascondere l’amore che prova, soprattutto se lo fa per sottostare a regole morali anacronistiche e insulse.

Stefano Ghiotto

Studio Architettura e si sa, al giorno d'oggi non ci si può più mantenere facendo l'architetto. Quindi cerco di fare qualsiasi altra cosa nella speranza di non arrivare mai alla prostituzione. Mi piacciono i film con trame complicatissime (che alla fine ti danno la stessa sensazione di benessere del bagno di casa tua dopo una giornata in Università) e le serie che non si caga nessuno come le patatine gusto "Cocco e curcuma".
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