
L’uomo di neve e la geografia della delusione
Grazie a L’uomo di neve ho imparato che le cose memorabili sono davvero poche: il riuscire a non strappare la plastica dello yogurt quando lo si apre, il davanzale della Johansson in The Prestige, e un trailer montato ad opera d’arte.
L’uomo di neve è un film che, sulla carta, doveva essere un trofeo portato a casa prima di iniziare la gara.

Prodotto da Scorsese, che, sicuramente, non è l’ultimo degli arrivati, il film è diretto da Tomas Alfredson, autore dell’interessantissimo Lasciami entrare e dell’ancora più interessante La talpa, entrambi, guarda caso, sceneggiati da Le Carré e ciò mi fa pensare che loro due siano come i Wham!, solo che del duo, Le Carré potrebbe essere George Michael e Alfredson, purtroppo, Andrew Ridgeley: separati uno dei due perde potere, e grazie a L’uomo di neve, sappiamo chi dei due è il soggetto in questione.
Il film racconta la storia con cliché e trovate già viste in altre opere (Insomnia, per citarne una, con cui condivide anche il paesaggio innevato), e questo non sarebbe per forza un punto a sfavore, se solo non risultasse tutto così noioso. Il super-detective che rincorre il super-killer col dono dell’ubiquità e dell’invisibilità, interrogatori e colpo di scena al pari di una partita di Indovina chi. Non c’è nulla da raccontare in più, perché gli altri personaggi, ai fini della trama centrale, sono inutili come il buonsenso durante un capodanno napoletano.

La pellicola è tratta dal libro omonimo di J∅ Nesbo, ma dubito che quest’ultimo sia così incompleto: la trama de L’uomo di neve è quanto di più approssimativo si potesse trasporre su uno schermo, tanto che anche il trailer, che mi aveva incuriosito e non poco, presenta scene che nel film completo non sono presenti. Il protagonista è Michael Fassbender, che avevo imparato a venerare con Shame, ma che qui ce la mette tutta per indossare la maschera di Rustin Cohle (rimediando, probabilmente, la devastazione di almeno uno dei suoi due polmoni, dato che fuma per il 90% del tempo in cui compare): il detective Harry Hole è geniale ma dannato, così geniale che i suoi casi vengono studiati nelle università, ma che, per uno scherzo del destino, ha come cognome Hole, ovvero buco (per i non madrelingua), che combacia perfettamente con quello presente nella messinscena, che glissa completamente sullo spiegare il perché della sua dannazione. Apparterrà forse al circolo dei poeti francesi Bohemien? Allo spettatore non è dato saperlo perché tanto, a chi importa dell’introspezione psicologica dei personaggi!
Nonostante tutto, però, il film presenta lati positivi, che però non riparano il danno lasciato dai lati negativi:
Primo fra tutti, la fotografia, che in alcuni momenti è davvero magnifica, cupa al punto giusto, ma che riesce ad esaltare il vero cuore della pellicola, la Norvegia ed il suo paesaggio splendido, a cui Alfredson dedica un numero imbarazzante di riprese, di cui, le prime, aeree, sono davvero spettacolari. Infatti, proprio nella prima parte (e parlo dei primi 10 minuti) L’uomo di neve mi stava attirando per il modo in cui la storia stava per essere raccontata: i tempi stavano funzionando bene, con l’entrata a piedi uniti dell’assassino in scena senza tergiversazioni inutili, poi, d’un tratto, il delirio. I tempi nella parte centrale si dilatano come un uomo in crisi di mezza età, con un focus sulla storia di Val Kilmer che è inconcludente per quanto vede lo spettatore, ma che porta alla rivelazione finale per i personaggi, e ciò probabilmente potrebbe essere spiegato attraverso la presenza massiccia di possibili tagli effettuati in montaggio, ma il fatto che manchino alcune sequenze è davvero palese per chi guarda (rilasceranno il film completo in DLC come per Batman v Superman?). Nel finale, invece, c’è uno sprint che neanche Usain Bolt sui 100 metri, dopo due ore passate a raccontare l’inutilità totale dei personaggi del film, perché l’Uomo di neve vero e proprio sembra giocare con se stesso per poi trovarsi da solo.

ALLERTA SPOILER, VIA CHI NON LO HA ANCORA VISTO (MEGLIO)
Il finale è tragico. Parto subito con la mia personale top 3 del “cosa cazzo ho appena visto”:
- Il modo in cui si arriva al finale e la morte di Rakel: davvero, non capisco. Mi spiegate cosa cazzo è successo nell’ultima ora e cinquanta? Pillole che scompaiono ed appaiono, disinfestatori muti, personaggi su cui deviare l’attenzione dello spettatore interessanti come un comodino, tutto per poi capire che il killer era quello yuppy milanese del nuovo compagno della vecchia fiamma di Harry. Tutto senza spiegazione, perché ad Alfredson qualcuno avrà detto: Muoviti a chiuderlo, tanto è venuto nammerda.
- Il dito di Harry: din din din, abbiamo un premio come personaggio che viene mutilato nella maniera più stupida dell’anno! Tralasciando il fatto che all’inizio Harry dica di non avere la patente e nel finale insegua la macchina del cattivone percorrendo una chicane innevata senza la minima esitazione, dopo aver perquisito la casa, e dopo esserti trovato alle spalle dell’assassino con la pistola puntata su di lui, S-P-A-R-A. E invece no, si siede per ascoltare il discorso di spiegazione del killer, giusto perché i cliché non erano abbastanza, consegnandogli persino la pistola (io gli avrei fatto pure un caffè, già che c’ero), e viene anche preso in giro dal killer che gli mostra che ci avrebbe messo quasi due minuti a decapitare la donna. Davvero, complimenti.
- Il ghiacciaio: dopo essere riuscito nell’ardua impresa di farsi mutilare, Harry decide che non basta e dopo aver inseguito l’Uomo di neve si ritrova su un ghiacciaio, ma a quel punto il Voltaren fa effetto e inizia a urlare scordandosi che il killer era, effettivamente, armato. Di tutta risposta si becca una pallottola (che per giunta arriva da una distanza di almeno un km, e l’assassino non risulta essere né The American Sniper né uno dei Mercenari, ma solo un dottore, che, però, evidentemente, ha la mira di Deadshot). Ma la risata isterica dello spettatore arriva alla morte del killer: cade in un cazzo di buco nel ghiacciaio. Capisco che lo si voleva far morire come la madre, ma dopo due ore e un quarto, CADE IN UN CAZZO DI BUCO NEL GHIACCIAIO. Si arriva, poi, senza far vedere altri risvolti tipo le altre storie secondarie (si saranno accorti che non fregava un cazzo a nessuno) all’immancabile e inutile twistone finale. Ma io spero di non rivederti mai più, caro Harry.

La delusione è cocente, perciò l’incazzatura è triplicata. Non ci rimane che sperare che Alfredson si redima e torni sulla retta via. E più che L’uomo di neve, servirebbe Padre Maronno.