Per chi è cresciuto negli Anni Novanta, il pomeriggio era segnato da un appuntamento imprescindibile: i cartoni animati su Italia Uno. Si aprivano le danze con Dragon Ball, accozzaglia di uomini con la coda che per una bimba di sei anni non avevano alcun fascino, si proseguiva con I Simpson, ometti gialli di cui ancora la bimba in questione non afferrava la portata satirica, e si terminava finalmente con Lupin III: la conclusione perfetta del pranzo dalla nonna, che per l’occasione sacrificava persino il suo amato Beautiful. Lui sì, che per la bimba aveva fascino.
Se state pensando ai romanzi di Maurice Leblanc, beh, dimenticateveli: il nipote è quanto di più lontano ci possa essere dal ladro gentiluomo della Parigi ottocentesca, o meglio, ne è la rivisitazione in chiave moderna. Trentenne scanzonato con basette imponenti, giacche psichedeliche e cravatte fuori luogo, è quello che si direbbe una simpatica canaglia: ruba ai ricchi anche se non necessariamente per dare ai poveri, ha la battuta pronta, è in qualche modo contorto un altruista ed ha un chiodo fisso, le donne – una, in particolare.
Nato dalla penna del fumettista giapponese Monkey Punch nel lontano 1967, Lupin III conosce i fasti del piccolo schermo due anni più tardi con un episodio pilota, e nel 1971 con una prima serie di 23 puntate su Yomiuri TV; l’anime non ha successo immediato, ma fortunatamente le repliche incollano al televisore bambini e adolescenti in tutto il mondo. Nel 1977 arriva una seconda serie, oltre a due film per il cinema. Una decina di anni dopo arrivano altri 50 episodi, un film e, sempre con dieci anni di pausa, altri due lungometraggi per il grande schermo nel 1995 e nel 1996. Nel nuovo millennio vengono prodotti un paio di spin-off, e, udite udite, un’ultima serie ambientata a San Marino. In altre parole, sono quasi cinquant’anni che le avventure del ladro scavezzacollo ci fanno compagnia.
Le ragioni del successo di Lupin III sono evidenti: primo, fa ridere. Ma non una risata da cinepanettone, che visto il genere pure si potrebbe prestare; una risata piaciona ma elegante, sarcastica ma non sguaiata, caustica ma non cinica; in pratica, un misto tra Woody Allen e Cary Grant. Secondo: la banda. Perché certi colpi mica si possono portare a termine da soli. E il buon Lupin si circonda di cavalli di battaglia: Goemon, samurai taciturno e tradizionalista con una spada, pardon, una katana capace di affettare qualsiasi cosa ad eccezione del marzapane, e Jigen, gangster da romanzo noir che all’epoca rubò il cuore della bimba di cui sopra. Ancora più misantropo del collega, accanito bevitore e instancabile fumatore, tanto da avere una sigaretta tra le labbra persino quando dorme, nessuno è mai riuscito a vedergli il volto, costantemente coperto da un borsalino nero. Per la serie “bad boys”, insomma. Un trio perfetto che però, come cantavano Timon e Pumba ne Il re leone, rischia di diventare un duo: perché se nessuno dei tre è immune al fascino femminile, Lupin è letteralmente soggiogato dalla bellissima Fujiko – che qualche volta, inspiegabilmente, si chiama Margot. Procace moretta priva di scrupoli, non esita a usare il suo amato per i suoi scopi, salvo poi redimersi e tornare a testa bassa (ma sempre col petto in fuori) nel gruppo.
Terzo, ma non meno importante: l’avversario, la nemesi, l’acerrimo nemico per cui si prova un misto di odio e rispetto: l’ispettore Zenigata, Zazà per gli amici. Allampanato e imbranatissimo funzionario dell’Interpol, ha come unico scopo nella vita catturare Lupin; come un Willy Coyote con l’impermeabile, i sui lanci di manette sono destinati a cadere nel vuoto.
Eppoi gli scenari da Vecchia Europa, la ricchezza, la vita del bel mondo: Lupin è un fuorilegge, sì, ma di quelli rilassati, senza preoccupazioni, impegnati prima di tutto a godersi la vita. E infatti non lo vedrete mai con una tuta da ginnastica: l’eleganza, prima di tutto, altrimenti le donne come si conquistano? E a tal proposito, non si finirà mai abbastanza di ringraziare Mediaset ed i suoi parametri, per così dire, elastici: perché un anime che mostra così tante tette, e usate per scopi così poco nobili, non sarebbe mai stato trasmesso da nessun’altra rete alle due del pomeriggio. Anche se in un certo senso Fujiko/Margot è una femminista post-moderna: obiettivi chiari, e mezzi ancora di più. Mentre Lupin è il tipico maschio dei nostri tempi: eterno adolescente, ironico, insicuro, scapestrato ed inguaribilmente romantico.
Ecco, forse è per questo che Lupin III piaceva così tanto a fine secolo, e perché ancora oggi riesce ad intrattenere con brio: perché è un ritratto fedele della vita da Millennial. Girovaga, colta, disimpegnata, irresponsabile, trés chic e, in fondo, terribilmente divertente.
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