
Malcolm & Marie: l’estetica sontuosa dell’inconcludenza tematica
Stiamo tutti quanti aspettando la riapertura delle sale cinematografiche – e probabilmente siamo degli stupidi illusi. In questo periodo di secchezza che manco la carestia di Giuseppe il re dei sogni, i grandi “eventi” cinematografici sono le uscite forti sulle piattaforme di streaming. Abbiamo avuto Mank, poi c’è stato Soul, e adesso è il turno di Malcolm & Marie, di cui vi parlo oggi.
Quando inizi a guardarlo, Malcolm & Marie è sopraffino. L’estetica ricercata ed elegante colpisce subito l’occhio – complice anche un iniziale piano sequenza che pare interminabile, a sottolineare la cura del comparto visivo. Ma quanto piace il piano sequenza al cinema contemporaneo?!
Ma facciamo subito un passo indietro.
Malcolm & Marie è un film di Sam Levinson interpretato da John David Washington e Zendaya. Sam Levinson è il regista di quel film mediocre che è Assassination Nation, ma anche creatore e ideatore di Euphoria, serie mezza evento del 2019 da cui Levinson recupera proprio Zendaya, che ne era la protagonista e aveva pure vinto un Emmy per il ruolo.
A queste premesse aggiungete il fatto che Malcolm & Marie è il primo film ad essere stato completato dopo l’avvento della pandemia. Girato in super segreto tra l’altro; non che ci voglia molto, vista la natura prettamente intima del film, ma ora ci arriviamo.
Tutto figo, no?

Meh. Andiamo con ordine.
Malcolm & Marie è un film che, per forza di cose, si regge interamente sull’interpretazione dei due attori protagonisti. Che, devo dire, se la cavano egregiamente. Zendaya è sorprendente considerando che arriva da Disney Channel. Con Miley Cyrus e Demi Lovato non era andata bene allo stesso modo. Lo aveva già in parte dimostrato appunto in Euphoria, dove però si intravedevano ancora alcuni difettucoli dovuti all’esperienza grezza della ragazza. Qui, invece, mi sembra che abbia fatto il definitivo salto verso la maturità. Non mi sorprenderebbe vederla nominata ai premi maggiori del cinema nei prossimi anni. E ha solo 24 anni. Quest’anno la vedremo messa alla prova anche nel Dune di Villeneuve. Io sto capendo adesso cosa voglio fare da grande.
John David Washington si dimostra l’attore che sa essere, nonché degno del nome di suo padre. Scusate l’insistenza con questa storia del figlio d’arte, però che cazzo, altro che Tenet. Ero rimasto esaltatissimo dalla prestazione di Washington in BlacKkKlansman, poi me lo ritrovo in Tenet con l’espressività di una tartaruga sdraiata. Ci ero rimasto male.
Qui, invece, è strepitoso, slanciandosi anche in assoli recitativi che alzano l’asticella, e non di poco.
Che a Sam Levinson piaccia il cinema sembra evidente. In questo film si dimostra essere un fedele cinefilo, lasciandosi andare in una moltitudine di citazioni, sia visive che verbali. In particolare tutta la costruzione estetica sembra un evidente ammiccamento alla Nouvelle Vague.
Peraltro siamo di fronte a un film “meta”, anche se mi sembra un termine eccessivo, roba del tipo che Fellini ha scoreggiato nella tomba per l’indignazione. Diciamo piuttosto che è un film in cui c’è protagonista un regista che ha appena presentato un suo lavoro e questo presta il fianco allo sviluppo di una serie di discorsi citazionistici sul cinema. Si cita anche Gillo Pontecorvo, roba alta.
Quello che forse Levinson non ha ben capito è che c’è un discrimine sottile tra la citazione colta e il mero estetismo formale manierista ed esibizionista. E so che mi sta odiando in questo momento, perché il discorso che sto per fare è esattamente quello che lui ha cercato di criticare in Malcolm & Marie – SPOILER: fallendo miseramente.

La “tesi” che Levinson vuole portare avanti è uno sfogo compulsivo nei confronti della critica cinematografica, tacciata di superficialità e tendenza morbosa nel distruggere il lavoro del presunto artista.
Però vi faccio la domanda più vecchia del mondo: è nato prima l’uovo o la gallina chi o cosa definisce chi è un artista? Che cosa è arte? Non voglio assolutamente dilungarmi sul tema, era solo una provocazione, esattamente come quella lanciata da Levinson nel film.
Sicuramente possiamo parlare di quanto la critica nel corso dei secoli sia stata cieca e lenta ad aggiornarsi, faticando ad ampliare i propri orizzonti culturali e ad ammettere nel novero dell’arte anche le devianze che oggi vanno tanto di moda. Faccio un altro esempio banale che più banale non si può? Van Gogh. Mai cagato da nessuno in vita, è oggi forse il pittore più famoso di sempre, nonché il più apprezzato. E questa è la critica militante, senza dimenticare che la critica si fa espressione di una certa “febbre” culturale, esattamente come l’arte stessa.
Ma chi è che ha rivalutato Van Gogh? Chi ha deciso che Dante venisse canonizzato e studiato in qualsiasi scuola superiore italiana (con buona pace degli studenti)? I POTERI FORTI La critica.
Ora, non voglio dire che l’arte senza la critica muore, perché l’arte si autoalimenta di una forza espressiva che è intrinseca all’opera. Questa potrebbe essere una buona definizione di arte. Allo stesso tempo, però, la definizione dell’arte resta sfuggevole, proprio perché è impossibile definirne a livello qualitativo la potenza.
Inoltre, per valutare l’impatto dell’arte sul mondo, serve tempo. Non si può giudicare l’arte sul breve termine, bisogna considerarne gli effetti, le risonanze. E questo è spesso un errore dei critici. È per questo che, spesso, gli artisti visionari vengono fraintesi o denigrati: perché sono di un passo almeno avanti rispetto ai propri tempi e sembrano produrre un qualcosa di scollegato dalla realtà vigente. Ma in realtà stanno plasmando la realtà futura.
Scusate il pippotto, ho finito.
Tornando debbotto al tema principale: Sam Levinson si lamenta dei critici, di quanto siano superficiali, di quanto impediscano all’arte di diffondersi ed esprimersi. E la cosa ha fatto incazzare molti.
Perché tu, da artista, non puoi aspettarti che nessuno commenti il tuo prodotto. Perché sì, l’arte è un prodotto, oggi come ieri e a maggior ragione quando parliamo di cinema. Ciò corrisponderebbe alla morte dell’arte. Perché Andy Warhol è così famoso? Perché lo è David Bowie? Perché lo sono i Nirvana? Perché loro, come altri, sono stati capaci di creare un discorso collettivo attorno alla propria arte. È banale: se la gente parla di qualcosa, quel qualcosa si diffonde sempre di più. Come un virus. Scusate la similitudine infelice.
Ed è troppo comodo accettare questa cosa quando la gente parla bene di te per poi rifiutarla quando parla male.
In più l’obiettivo della critica non è esprimere giudizi o sentenze; lo è invece l’analisi, spogliata dal pregiudizio, dell’opera al fine di evidenziarne le molteplici direttive. Quindi, potremmo dire, che la critica che Levinson mostra di disprezzare non è vera critica. La potremmo al massimo definire critica di giudizio.
Poi sono d’accordo sul dire che questa è una visione di critica ideale e che spesso la realtà tradisce le aspettative. Ma hey: fare arte significa anche esporsi al rischio del fraintendimento. La comunicazione è imperfetta per sua natura, figuriamoci quando si tratta di comunicazione simbolica.
Inoltre, in un periodo di democratizzazione digitale come quello che stiamo vivendo, sempre più persone – e sempre meno specialisti – hanno la possibilità di dire la propria, ma questo non è necessariamente un male. Io ho il diritto di parlare di arte tanto quanto lo ha un critico fintantoché le mie argomentazioni restano valide. Smettiamola col discorso del “non sai di che parli, non parlare”. L’arte è cosa pubblica, chi ne dovrebbe parlare se non tutti?
Che poi Levinson il suo discorso lo sviluppa pure male. Anziché creare un dialogo intorno all’argomento, struttura tutto il film ad assoli. Prima parla, urla, sbraita John David Washington, poi tace e allora parla, urla e sbraita Zendaya. Così, in alternanza, inesorabilmente.
In questo modo il discorso si fa estremamente spezzettato e, a volte, gli argomenti non si riescono nemmeno a legare. Per spezzare una lancia a favore c’è da dire che Zendaya assume più o meno la posizione che sto assumendo io in questo momento: dice al suo compagno, parafrasando, “ma se vuoi fare arte perché ti lamenti se poi la gente ne parla?”.
Che poi nessuno nel rivolgerti una critica sta cercando, in teoria, di criticare te o il tuo impegno. Quello che si critica, nel caso dell’arte, sono sempre i risultati estetici. L’estetica che, guarda caso, è il campo d’azione dell’arte. E quindi nessuno nega che magari dietro alla produzione di un’opera ci sia una lavorazione follemente difficoltosa e adempiuta con un’etica professionale impeccabile, ma ciò non implica che necessariamente i risultati estetici debbano essere degni di nota.
L’arte non deve funzionare, nel senso meccanico ed operativo del termine; l’arte deve colpire; non è calcolo, è espressione.
Non posso non riconoscere il gigantesco sforzo produttivo di un film come Tenet, né tantomeno negare l’assoluta professionalità di Nolan, ma ciò non mi vieta di affermare che i risultati estetici di Tenet siano insoddisfacenti. È da settembre che me la prendo ininterrottamente con Nolan, prima o poi mi chiama come aiuto regista. Per picchiarmi.

Per concludere, e scusatemi la divagazione infinita. Malcolm & Marie è un film piacevole da GUARDARE. È comunque intrigante e a suo modo avvincente, puntando tutto sul suo comparto visivo atto a catturare con la sua estetica folgorante. E ci riesce.
Guardato più alla lente, però, mostra tutti i suoi difetti: che principalmente sono l’autoreferenzialità e l’inconcludenza. Perché, nonostante – lo ammetto – inizialmente il film mi stesse piacendo, sul finale sono rimasto amareggiato in quanto tutto il discorso svolto fino a quel punto non aveva portato a una conclusione di nessun tipo. E quindi ho iniziato a chiedermi il perché di questo film. Qual è il punto? A me sembra solo un discorso vittimista e svolto male. Ma magari mi sbaglio.
Una cosa è certa però: la critica svolge il fondamentale e delicatissimo ruolo di orientare, informare e storicizzare la cultura; senza di essa ci perderemmo, a maggior ragione oggi, in un oceano di forme di espressione non regolate e all’interno del quale sarebbe impossibile orientarsi. In altri termini la critica ci indica la direzione che noi, da soli, non sapremmo imboccare. E di certo Sam Levinson non è Carmelo Bene.