Immaginate un film che vi presenti tredici diversi movimenti artistici, prendendo pari pari le frasi scritte nei rispettivi manifesti e calandole nella vita reale. Scommetto che sareste un po’ restii a pagare il biglietto del cinema. Bene, ora immaginate la stessa situazione, però con Cate Blanchett a recitare in tredici ruoli diversi. Come dite? Siete già in coda al botteghino?
Questo è Manifesto: novanta minuti suddivisi in tredici episodi, dove Cate Blanchett declama i programmi di Marx ed Engels, Marinetti, ma anche di pensatori ed artisti ben più recenti – l’ultimo, cronologicamente parlando, è The Golden Rules of Filmmaking di Jim Jarmusch, risalente al 2004. Messo così, Manifesto potrebbe sembrare l’apoteosi della noia; e in effetti, le premesse per il tipico macigno intellettualoide ed incomprensibile ci sono tutte.
Dietro alla macchina da presa c’è Julian Rosefeldt, artista tedesco abbastanza familiare con le video-installazioni; ed in origine Manifesto era proprio questo. Girato in dodici giorni nel freddo inverno berlinese del 2014 in una coproduzione con l’Australia, venne inizialmente presentato all’Australian Centre for the Moving Image il 9 dicembre 2015, per passare l’anno successivo al Berlin Museum für Gegenwart prima e al Park Avenue Armony di New York poi. La data di svolta? Il 19 gennaio 2017, che coincide con il debutto di Manifesto al Sundance Film Festival. Di nicchia, ma anche di richiamo. Per l’occasione, pare che il film sia stato tagliato e in qualche modo reso più appetibile per il grande pubblico: la trama, se di trama si può parlare, riguarderà il ruolo dell’artista nella società moderna.
Due sono le certezze: la prima, che Julian Rosefeldt è un furbone, capace di fiutare le spietate leggi della pubblicità e di prendere un gigante come Cate Blanchett come protagonista assoluto di un film che sarebbe altrimenti passato sotto silenzio; la seconda, che la Blanchett è un mostro di bravura, qualora ci fosse bisogno di ribadirlo. Barbona, presentatrice televisiva, operaio, punk, maestra elementare: se in Io non sono qui, film che tra l’altro le ha permesso di avvicinarsi a Rosefeldt, riusciva ad essere più Bob Dylan di Bob Dylan, pare che con Manifesto si supererà, in una fusione inconsueta di cinema, teatro ed arte.
Il trailer del film è pervaso da un sottofondo inquietante, così come inquietanti sono le espressioni della Blanchett; e d’altronde, sembra che ormai l’arte per poter essere considerata tale debba far chiudere lo stomaco. Poco altro si evince da questi due minuti di immagini all’apparenza slegate; sapremo di più una volta che gli schermi americani avranno proiettato quello che si annuncia come il film meno americano dell’anno. Nel frattempo, gustatevi una Blanchett bionda, mora, rossa, grigia, uomo, donna, ma soprattutto: attrice.