
Memento: ricordarsi di non dimenticare
Grazie a Following, nel 1998 Christopher Nolan rivela il suo talento al mondo. Bisogna però aspettare il 2000 perché questo sia ufficialmente riconosciuto. Quell’anno avviene infatti la trasferta americana, che porta alla realizzazione di quello che molti considerano il miglior film del regista: Memento.
La genesi della pellicola risale a un viaggio da Chicago a Los Angeles, durante il quale Nolan ascolta dal fratello Jonathan la trama di un racconto a cui lui sta lavorando, Memento Mori. Christopher ne rimane affascinato e, nonostante si prenda molte libertà, decide di trarne una sceneggiatura. Terminata la stesura, resta solo da trovare i soldi per girare. Per l’occasione la società di distribuzione Newmarket Films si improvvisa casa di produzione e stanzia un budget di 5 milioni di dollari (che sembrano pochi, ma in confronto ai 600.000 di Following sono una fortuna).
Forte di questo aiuto economico, Nolan può finalmente lavorare con un cast di professionisti, tra cui spiccano Guy Pearce, Carrie-Ann Moss e Joe Pantoliano. La differenza si fa sentire anche sui tempi di lavoro: le riprese, effettuate nella periferia di L.A., durano appena 25 giorni, contro l’anno intero richiesto dal predecessore. Alla sua uscita, il film si rivela un altro successo di pubblico e critica, vincendo numerosi premi in altrettanti festival cinematografici (ad esempio quello per la miglior sceneggiatura al Sundance) e diventando in breve tempo un cult.
Noir atipico come il lungometraggio d’esordio, Memento narra le vicende di Leonard Shelby (Pearce), ex investigatore assicurativo intenzionato a trovare e a vendicarsi dell’uomo (tale “John G.”) che ha violentato e ucciso sua moglie. Però c’è una complicazione: a causa di un trauma cranico provocato dallo stesso assassino, Leonard soffre di perdita della memoria a breve termine.
Ciò gli impedisce di ricordare fatti accadutigli appena dieci minuti prima, problema a cui tenta di porre rimedio con un complesso sistema di memorandum, comprendente appunti, foto e tatuaggi. Nel corso della sua ricerca si imbatterà ripetutamente nel poliziotto Teddy (Pantoliano) e nella barista Natalie (Moss), personaggi ambigui che ora sembrano aiutarlo, ora lo manipolano sfruttando il suo disturbo.
Ciò che distingue Memento da un classico thriller con protagonista affetto da amnesia è la sua originale struttura narrativa, che si adatta alla patologia di Leonard. La storia si evolve secondo due direttrici temporali. La principale, girata a colori, è formata da segmenti narrativi della durata di una decina di minuti ciascuno, disposti secondo un ordine retrogrado (ogni sequenza successiva sul piano dell’intreccio è in realtà posizionata prima a livello della fabula).
A questa se ne alterna un’altra, composta da brevi scene in bianco e nero che procedono in maniera cronologicamente corretta, dove vediamo il protagonista al telefono nella stanza di un motel. I due piani si intrecciano continuamente nel corso del film per poi congiungersi nel finale, rivelandosi due estremità di un’unica linea temporale che si incontrano nel mezzo.
In Memento si riscontra quindi la stessa frammentarietà narrativa che già caratterizzava Following, di cui il secondo lungometraggio di Nolan è quasi una versione riveduta e migliorata. E infatti, anche in questo caso, abbiamo un ribaltamento dei rapporti causali: la struttura à rebours della pellicola fa in modo che si assista prima alle conseguenze di un’azione e solo dopo ai presupposti che le hanno generate. Al tradizionale piacere di scoprire cosa succede dopo si sostituisce l’urgenza di sapere ciò che è accaduto prima.
Attraverso questo meccanismo, il pubblico sperimenta la medesima percezione del tempo di Leonard. Ogni volta che inizia una sequenza a colori, lo spettatore condivide con il protagonista il senso di disorientamento derivato dall’assenza di una conoscenza pregressa. Solo che, a differenza di Leonard, ha la possibilità di ricostruire tutto l’accaduto man mano che il film va avanti (e la storia, di conseguenza, indietro).
Dopo Following, Nolan propone così un altro intrigante puzzle da risolvere, al quale si può dare un senso soltanto alla fine e in cui non mancano incertezze e oscurità. Non sono poche infatti le situazioni in cui siamo portati a credere in qualcosa che in seguito si rivelerà differente dalla realtà. In Memento le apparenze possono facilmente ingannare, e questo vale sia per il pubblico che per il protagonista.
Il senso del film sta tutto qui. Esattamente come la memoria di Leonard, anche i fatti possono essere fallaci. Convinto che gli appunti concreti siano più affidabili dei ricordi, il protagonista prende nota di tutti gli eventi accaduti, degli indizi raccolti e degli obiettivi da compiere. Ma più si va avanti più ci si rende conto che i dati accumulati possono essere sbagliati, confusi o equivoci. Lo si capirà bene nel sorprendente (e sconvolgente) finale, segnato da un doppio plot twist che eviterò di svelare per quelli che ancora non hanno visto il film.
Memento costituisce un arguto saggio sull’inconsistenza dell’informazione. Nolan mette in dubbio la veridicità dei media, evidenziandone la natura ingannevole e manipolatoria. Allo stesso tempo pone l’attenzione sul peso che la memoria ha nella costruzione dell’identità e della personalità.
Se in Inception Cobb afferma che un’idea, anche la più piccola, può crescere fino a definire o distruggere una persona, lo stesso vale per un ricordo. Nel caso di Leonard, è l’ultimo che possiede, quello della moglie morente, a dettare tutte le sue azioni. Si tratta di un chiodo fisso a cui non può non rimanere ancorato (“Non riesco a ricordarmi di dimenticarti”), al punto da fare della vendetta la sua unica ragione di vita, con conseguenze estreme ed inimmaginabili.
Volendo si può fornire pure un’interpretazione metacinematografica a Memento. Oltre allo scontato parallelismo tra Leonard e lo spettatore che guarda il film, non è difficile vedere nel protagonista l’equivalente di un attore che recita seguendo una sceneggiatura. Sceneggiatura scritta dallo stesso Leonard sul proprio corpo, sotto forma di tatuaggi.
Naturalmente gran parte del merito per la riuscita del film va proprio a Guy Pearce, all’epoca reduce da L.A. Confidential (guarda caso un altro noir) e ancora poco conosciuto. Dotato ironicamente di una memoria fantastica (almeno a detta di Nolan), l’attore australiano si cala in modo eccellente nei panni di un uomo costantemente smarrito, costretto ogni dieci minuti a mettere insieme i pezzi per trovare un senso agli eventi. E nel farlo, riesce a conferirgli l’ambiguità richiesta dalla storia.
Con il personaggio di Leonard, Nolan porta infatti avanti la sua poetica del doppio. Già perennemente diviso tra l’io del presente e l’io di un passato di cui non ha memoria, il protagonista di Memento finisce per ricoprire al contempo (e inconsapevolmente) i ruoli di vittima e carnefice. Specchiandosi a sua volta nella figura di Sammy Jankins, vecchia conoscenza affetta dal suo stesso disturbo, che se inizialmente funge da plot device, si rivelerà infine un vero e proprio alter ego di Leonard. Nonché cuore segreto della pellicola.
Complesso, avvincente e a tratti inaspettatamente romantico, Memento è a ragione una pietra miliare del cinema. È sempre un piacere perdersi nel rompicapo che Nolan, alla sua sola seconda esperienza, è stato capace di ideare. Dopo sarebbero venuti altri capolavori (The Prestige, Il cavaliere oscuro, Dunkirk… fate un po’ voi), ma nulla toglie che questa sia un’opera speciale.