
Metalhead: ho scelto te, un geyser, per amico
Oggi si recensisce Metalhead. Un film ambientato in Islanda.
Islanda: natura incontaminata, tanto freddo, tantissime consonanti, persone alte e tendenzialmente bionde. 332.529 abitanti (grazie Wikipedia). Famosa per:
-Geyser e vulcani;
-Bjork e i Sigur Rós;
–Una nazionale di calcio che festeggia in modo bizzarro.
Che dire, una nazione meravigliosa. Un posto dove si fa anche cinema, e lo si fa sul serio e bene. Anche se, a voler grattare la superficie, proprio dai suoi film viene fuori un quadro che ti fa pensare che l’Islanda, “sì, bellissima eh, ma non so se ci vivrei, magari 10 giorni così, da turista”. Chi per esempio avesse visto Noi Albinoi di Dagur Kari si sarà già fatto un’idea. Voglio dire, sono in 300 mila su un’isola sì bella, ma remota e un filo inospitale, con vulcani che ogni tanto eruttano e bloccano il traffico aereo per giorni. Paesini con un pugno di case dove l’evento dell’anno è la sagra della mietitura. Giorni e notti lunghissime. Chiaro che se sei un adolescente carico di ormoni e ribellione e il massimo dello sfogo è mungere le mucche, potresti anche manifestare dei sintomi di disagio.
“Avevo appena lavato la macchina”
Poi oh, parla uno che in Islanda non ha mai messo piede, magari vivere lì vuol dire festa grande da mattina a sera. Però a giudicare dal film in questione, Metalhead (scritto e diretto da Ragnar Bragason nel 2013), non ci metterei la mano sul fuoco. È un bel film sull’angoscia, sulla sensazione di non occupare il proprio posto nel mondo, sullo scontro con la generazione precedente che non ti comprende e non capisce perché, per esempio, non vieni a messa ogni domenica mattina. Guardarlo dà la sensazione di trovarsi in una stanza dove lentamente entra dell’acqua che sale, sale, fino ad arrivare quasi al mento. Poi si ferma lì, anzi inizia a scendere, alla fine sei quasi contento perché non sei affogato, il livello si è stabilizzato, però ti arriva ancora alle ginocchia. Sta lì.
Lo scontro generazionale
1983: famiglia islandese madre-padre-fratello maggiore-sorella minore vive in un piccolo paesino dove manda avanti una fattoria. Hera (Tora Bjorg Helga), la piccola di casa, è ancora una bambina quando vede morire male, e intendo proprio morire malissimo, l’adorato fratello Baldur. Ora, l’adolescenza di per sé non è un momento semplicissimo da gestire. Non lo è soprattutto per una ragazzina. Non lo è per una ragazzina che vive a mille miglia dai posti dove succedono cose. Non lo è a maggior ragione se vedi lo scalpo di tuo fratello fare letteralmente FLAP FLAP FLAP appeso ad una mietitrebbia. Ci credo che poi crescendo la ragazza diventi un po’ disagiata un po’ ribelle. La famiglia non aiuta: i genitori sarebbero anche dei bravissimi cristi, ma sono proprio sintonizzati su lunghezze d’onda differenti. Hera eredita la notevole discografia del fratello, la sua chitarra e diventa una fan del metal, si costruisce una sala incisione nella stalla e registra una cassetta che comincia a far girare nella scena musicale locale. Tanto per capirci, i genitori vanno a ballare nel salone della parrocchia e la massima botta di vita che si concedono è cantare canzoni islandesi in salotto voce-chitarra.
Ah: come se non bastasse, per aumentare il carico di angoscia tenete presente che: 1) per guadagnare due soldi, Hera fa l’operaia nell’unica fabbrica del paese. Che lavora carcasse di animali. 2) Il solo coetaneo sessualmente attivo nel raggio di chilometri parrebbe essere Knutur, un mite cicciottello con il quale Hera perde la verginità più per noia che per altro. Knutur è ragazzo vecchio dentro, ovviamente è innamorato perso di lei e si fa piacere il metal anche se non lo sopporta.
“Sà, sà, prova”
Qui il film decolla. I genitori, che non hanno superato neanche loro la perdita del figlio ed evitano il più possibile di parlarne, intuiscono che la ragazza ha qualche problema. Va in giro la notte, beve, ruba i trattori dei vicini. Reagiscono nell’unico modo possibile, per loro: chiedono aiuto al prete.
Ora, non so voi, ma io quando ho finito il film ho sentito il bisogno fisico di uno spin-off sul prete. Don Janus (Sveinn Ólafur Gunnarsson) è un PRETE CHE ASCOLTA METAL COL TATUAGGIO DEGLI IRON MAIDEN SULLA SPALLA SINISTRA, ma lo svela solo a Hera. I due entrano in sintonia, perché soltanto lui la capisce e la ascolta. La ragazza finisce per innamorarsene, ma lui ahimè deve friendzonarla. Non tanto per il fatto di essere prete (pare che sia luterano: quindi potrebbe), quanto per il fatto di essere omosessuale. Hera non la prende benissimo e una notte dà fuoco alla chiesa, quindi scappa e si rifugia in una casa di campagna abbandonata. Prima di morire assiderata, decide saggiamente di tornare a casa.
A dare la scossa alla vita di Hera ci pensano tre ragazzi norvegesi che, sentite le sue registrazioni casalinghe, partono dalla Norvegia e vanno a stare nella fattoria dei suoi per registrare e pubblicare le sue canzoni. Una sera si esibiscono sul solo palco disponibile in zona, quello della pro loco del paese (presumo) con una performance che lascia tutti allibiti.
Il finale non lo posso spoilerare, ma vi garantisco che indubbiamente Metalhead merita di essere visto. Un piccolo gioiello di film, con un finale che lascia allo spettatore la possibilità di riflettere sul fatto che forse a volte, per arrivare alla felicità, alla serenità, chiamatela come volete, dobbiamo scendere a compromessi con noi stessi e con gli altri. Per non farci sommergere.
Ok, non ho tempo di leggere, dimmi perché dovrei vederlo:
–la canzone suonata dalla band di Hera alla fine del film
-QUEL PRETE!!!!!!
-se ti piacciono i film che lasciano un retrogusto agrodolce.
P.s. se siete dei metallari come si deve, fate un salto dai nostri amici di Metal in Italy!