Film

Mia madre, un’intima cognizione del dolore

Avete presente quando vi ritrovate per caso ad ascoltare una conversazione intima di qualcuno che conoscete poco? Quel senso di imbarazzo, di curiosità e, in alcuni casi, di sorta di gratitudine che vi pervade, di fronte al suo avervi reso partecipi di qualcosa di così personale? Ecco, Mia madre di Nanni Moretti fa esattamente questo effetto.

Uscito nelle sale nel 2015, il film racconta la storia di una regista italiana, Margherita (Margherita Buy), che si districa tra la produzione di un film complesso con un attore protagonista piuttosto problematico, Barry Huggins (ecco, forse un John Turturro non perfetto, ma di difficilissima realizzazione, dunque più che perdonabile) e la propria vita famigliare, fatta anch’essa di complessità: il rapporto con la figlia, quello con il fratello Giovanni e quello, rimesso totalmente in discussione dalla di lei malattia, con la madre Ada.

Nanni sceglie di realizzare un film nettamente autobiografico: la vita consacrata al cinema e questo legame così particolare con la propria madre, sono tutti suoi, e anche senza conoscere i dettagli della sua vita noi sentiamo di stare entrando in punta di piedi nell’intima parte di emotività del regista, e quasi ci sentiamo di non averne il diritto, quasi, man mano che andiamo avanti, percepiamo il peso del compiere un’azione sbagliata. Tuttavia, Nanni non ce ne lascia uscire, ci porta sempre più dentro questa sorta di piccolo scrigno che ha realizzato, dove ha messo una parte della propria esistenza.

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E ovviamente non lo fa proprio senza dimostrare una più che discreta abilità: mi è venuto spontaneo (e dato che ne ho parlato di recente mi sembra giusto scriverlo) paragonare una certa linea autoriale di Nanni Moretti con quella di Virzì, per la comune capacità di far intendere certe cose, certe dinamiche relazionali, in particolare, attraverso il non detto. Ovviamente parliamo di due registi diversi, con due approcci differenti, ma entrambi maestri in questa tecnica.

Ad esempio, in Mia madre non ci viene detto molto del rapporto tra Margherita e il fratello (interpretato magistralmente dallo stesso Nanni Moretti); eppure noi siamo in grado di comprendere che si tratta di una relazione segnata sì da un forte affetto, ma contemporaneamente da un continuo confronto tra una Margherita indecisa, insicura, nervosa e spesso poco presente e un Giovanni pacato, determinato e apparentemente sempre al posto giusto, nel momento giusto e con le giuste competenze.

Tutto questo attraverso giochi di sguardi e pochi scambi di battute, che però ci portano ad una comprensione cristallina di questi fili invisibili che legano i diversi personaggi per poi arrivare a delinearci la figura di Margherita, una donna che si è fatta strada, è cresciuta, che si è atteggiata come forte e decisa per poi mostrarsi a noi come a stento capace di comprendere i propri sentimenti. Di questa difficoltà è prova, per l’appunto, la madre, una donna che Margherita vive in una pluralità di modi: le vuole bene, la odia, la percepisce come un peso, la teme, la rispetta, talvolta la invidia, quando scopre che la figlia ha una relazione più intima con lei, sua nonna, piuttosto che con la propria madre.

Secondariamente, Nanni, attraverso Margherita, usa il metacinema per mostrarci quanto sia facile pensare che un individuo che raggiunge la fama se la spassi felice e tranquillo e faccia le cose senza difficoltà alcuna: Margherita non solo non riesce a imporsi, ma anzi, è il nodo centrale di tensione sul set, che peggiora continuamente fino a esplodere in un vero e proprio litigio con l’attore, Barry.

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Due elementi centrali della sua vita che, nel loro vacillare, mettono in discussione la personalità di Margherita, che realizza di aver rincorso l’affermazione, in un certo modo, ma di averla lasciata indietro nella sua parte, appunto, intima: di non essersi affermata nell’amore con il marito, con il successivo compagno, con la figlia, neppure col fratello che ha cercato di dirglielo ma senza successo.

Proprio questa discussione è l’intima confessione del regista, l’intima relazione che intreccia con noi spettatori, l’intimo e non detto dialogo che ci viene sussurrato ad un orecchio, tra un sospiro e un silenzio che hanno lo stesso peso, la stessa rilevanza, della parola e del rumore. Fino ad arrivare, appunto, alla cognizione del dolore (mi perdonerete la citazione letteraria, ma non c’è definizione più esatta): quella constatazione un po’ amara nella quale ci si rende conto che, per quanto ci si impegni, si soffre per il proprio dolore, per il proprio perdere, anche quando questi derivano dal dolore di qualcun altro. E ancora una volta non abbiamo qualcuno a dircelo; a parlarci è l’espressione di Margherita nell’ultimo frame, un sorriso che diventa smorfia di dolore, uno sguardo perso nel vuoto a ricordare qualcuno che non c’è più e che ci fa il torto di abbandonarci.

– A cosa pensi mamma?

– A domani.

Gaia Cultrone

1994, ma nessuno ci crede e ancora bersi una birra è complicato. Cinema, libri, videogiochi e soprattutto cartoni animati sono nella mia vita da prima che me ne possa rendere conto, sono stata fregata. Non ho ancora deciso se sembro più stupida di quello che sono, o più furba; pare però che il cinema mi renda, quantomeno, sveglia. Ah, non so fare battute simpatiche.
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