
Midnight in Paris: esiste per davvero un’epoca d’oro?
Uno dei capolavori dell’ultimo Woody Allen, che continua il suo discorso sui miti, la nostalgia e la ricerca dell’ispirazione.
Ineludibile premessa
Lo ammetto candidamente: sarò anche un aspirante scrittore, ma, se fossi stato al posto di Owen Wilson ai vari Hemingway, Picasso, Fitzgerald e compagnia danzante avrei tirato amabilmente il culo, perché avrei passato la vacanza chiuso in camera con Rachel McAdams.
Prendendo la gargantuesca (ogni volta che riesco ad utilizzare scientemente questo aggettivo si diradano per un attimo le nubi della mia misantropia) filmografia di Woody Allen Midnight in Paris si colloca a metà tra un film scialbo (Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, 2010) e quello che è stato etichettato come la vera merda (l’unica) di tutta la sua decennale attività (To Rome With Love, 2012). Vincitore del premio Oscar per la sceneggiatura originale Midnight in Paris inizia così (cliccate Play qui sotto, amici) e ti catapulta fin da subito in un’atmosfera onirico-nostalgica da cui non è più possibile uscire.
A midnight andiamo a fare un giro per gli anni Venti
La storia di Midnight in Paris è semplicissima: uno scrittore di sceneggiature hollywoodiane, Gil Pender (Owen Wilson) va a Parigi in viaggio con fidanzata (Rachel McAdams) e suoceri. Gil è un romantico, sognatore, amante di Parigi – soprattutto quella degli anni Venti – e del suo fascino retrò, desidera ardentemente trasferirsi nella capitale francese per trovare l’ispirazione per finire il suo romanzo, la sua opera d’arte definitiva. La fidanzata Ines invece è la tipica californiana: bionda, superficiale, materiale. Non capisce e non capirà mai le fissazioni del marito e intanto sbava per Paul, l’intellettualotto rompicazzo per cui aveva una cotta al liceo e che incontra insieme alla sua poco sveglia partner in quel di Parigi.
Una sera però succede che mentre Gil vaga mezzo sbronzo per le viuzze della città venga caricato da una macchina decisamente anni Venti e portato a una festa dove conosce Francis Scott e Zelda Fitzgerald. I Fitzgerald.
Non si sa bene come, ma Gil ha realizzato il suo sogno e si ritrova a girovagare per la Parigi che lui ama e sogna, quella immersa nell’epoca del jazz e popolata da un crocicchio multicolore di artisti e letterati.
L’âge d’or
In realtà la figata del film – al di là della perfetta ricostruzione storica, del vedere gli eroi di molti noi lettori compulsivi muoversi, parlare, essere strambi come ce li siamo sempre immaginati – sta nella domanda che scorre come una falda acquifera sotto l’intera pellicola: ma esiste o no un’epoca d’oro? E’ possibile ipotizzare un momento storico in cui tutto quanto filasse liscio, i treni arrivassero in orario, le paludi fossero state bonificate e l’Uomo fosse un essere meno bestiale e superficiale di quello che i tempi moderni mostrano?
La risposta di Woody Allen è ovviamente negativa: ovunque e in ogni tempo c’è sempre stato qualcuno che pensava che la vera epoca d’oro, quella autentica, risiedesse in un passato più affascinante, più retrò, più “qualificato” ad essere la vera (L)’âge d’or (e qui non me la sto tirando per via del francese, ma per via del fatto che è un film di quel Luis Buñuel che appare nel film).
Il crollo dei miti
Woody Allen procede qui a demolire anche i suoi stessi miti: gli scrittori, gli artisti, i musicisti che suonavano il “suo” jazz, quello che – bene o male – apre la quasi totalità delle sue pellicole. Quelli che vediamo sono uomini piccoli piccoli che non sanno di essere giganti. Fragili creature franate ognuna nel suo abisso, tra i quali il nostro Gil Pender si muove in punta di piedi, sempre con la stessa espressione stupefatta e meravigliata che a poco a poco viene però meno.
La breve romance con Marion Cotillard è funzionale ad approfondire il contatto con un’età altrettanto difettosa, pregna di un fascino non intrinseco, ma affibiatole dallo stesso Gil. E con Marion Cotillard si va sempre più a ritroso: la Belle Epoque, il Rinascimento, e poi chissà cos’altro…
Midnight in Paris è un film magico, che si muove leggero e delicato spostando mobili ingombranti, concetti profondi e andando a sfiorare figure oggi immortali. Un film onirico che non dà e non vuol dare spiegazioni a uno spettatore che se ne deve stare di quello che vede.
Woody Allen mette in gioco una delle sue scritture più interessanti, narrativamente geniale. Forse non all’altezza dei suoi dialoghi più ispirati, come gli sproloqui di Boris in Basta che funzioni (tanto per rimanere aggrappati all’ultimo Allen), ma che affida a Owen Wilson un personaggio che è ovviamente un calco pari pari dei suoi personaggi: nevrotico, pieno di paure, ansie, timori e insicurezze.
Gil dovrà vedersela con tutti questi problemi, trovando una soluzione finale che gli permetta infine di slegarsi da tutte quelle catene che gli impediscono di vivere il suo sogno, quello che – a sua insaputa – è la vera epoca d’oro.