Serie TV

Mindhunter 2, probabilmente la miglior lezione di Criminologia di sempre

Pensare male per trovarsi bene, dice sempre mio padre. Reduce da traumi quali Game of Thrones 8 o Stranger Things 3, per la seconda stagione di Mindhunter avevo aspettative bassissime,  avendo adorato senza riserve la prima ed essendo profondamente pessimista per natura.

Il Dio delle serie tv deve però aver ascoltato le mie lagne e sussurrato nell’orecchio di David Fincher di partorire qualcosa di buono, anzi di eccellente, proprio per non sentire più quei brontolii da caffettiera che tanto irritano il mio entourage. 

E così è stato, grazie Netflix.

La serie riprende dal punto in cui si era interrotta: l’agente Holden Ford/Jonathan Groff, traumatizzato dall’ultimo colloquio con Ed Kemper, inizia a soffrire di attacchi di panico e il suo partner Bill Tench/ Holt McCallany deve fronteggiare gravi problemi con la moglie e il figlio adottivo.

Se nella sfera privata le cose non vanno benissimo, in quella lavorativa c’è una svolta: il Bureau, con rinnovata fiducia nella squadra, stanzia fondi più generosi, aumentando ovviamente il controllo sui suoi metodi investigativi.

Controllo che si fa più stringente nel momento in cui ad Atlanta vengono uccisi, uno dopo l’altro, 28 bambini di colore: secondo Holden dietro agli omicidi si nasconde un nuovo serial – killer e per ricostruirne un profiling, i due agenti dell’FBI ricominciano le interviste ai più famosi assassini dell’epoca, quali Dennis “BTK” Rader, Charles Manson e David Berkowitz. 

Divorati i nove episodi di Mindhunter 2 ho provato quella sensazione dolciamara che mi assale spesso quando finisco un film, una serie o un libro che mi piace: la malinconia di un gattino lasciato in pensione dai padroni partiti per le vacanze, che aspetta fiducioso il momento in cui verranno a recuperarlo. 

La metafora rende l’idea? Se, dopo i titoli di coda, vengo assalita da questo sentimento, l’idea che il mondo abbia ancora qualcosa di buono da offrire non mi pare più così aliena e ciò è – inaspettatamente – accaduto con questa stagione di Mindhunter.

Il dipanarsi della trama segue il procedimento collaudato della precedente stagione, senza scadere nel ripetitivo:  alla vita professionale si affianca quella privata, concentrandosi in particolare su quelle di Tench e di Wendy/Anna Torv.

A questo punto l’unico appunto che mi sento di muovere allo sceneggiatore Joe Penhall, per il resto ineccepibile: perché dedicare così poco spazio alla Wendy psicologa in favore di un focus sulla sua travagliata vita sentimentale?

Un ottimo personaggio lasciato in secondo piano, quando invece avremmo voluto vedere il suo contributo nel progredire delle indagine, avendo già dimostrato un eccellente intuito.

“Perché non mi caghi, Penhall?”

La vicenda familiare di Tench, al contrario, costituisce una sottotrama estremamente interessante per lo spettatore di Mindhunter: il suo, a volte goffo, destreggiarsi tra i gravi problemi col figlio Brian/Zachary Scott Ross e le indagini, è uno dei punti forti della stagione, che rende necessaria una terza (chi ha orecchie per intendere intenda, cari Netflix e Fincher).

Chi invece sembra abbia completamente messo da parte la vita personale è Holden, dedito anima e corpo al lavoro e ai serial – killer, il che porta a qualche contrasto con Tench, spesso distratto dai suoi problemi. Non che mi dispiaccia, vedere il mio amato Ford – occhi – blu tra le braccia di un’altra sarebbe potuto essere un trauma.

In questa stagione di Mindhunter, assistiamo ad una notevole evoluzione nel protagonista più giovane: dopo un primo momento di sbandamento, acquista grande  sicurezza e, se Tench costituisce la parte saggia ed equilibrata, la sferzata di vitalità è appannaggio di Holden.

Come forse già sapete, sono appassionata di cronaca giudiziaria e omicidi: se siete degli spostati come me, Mindhunter è una serie che non può mancare nella vostra lista.

È come frequentare una facoltà di Psicologia Criminale al prezzo dell’abbonamento a Netflix: le lezioni però le tengono i veri serial – killer, con tanto di esami finali.

Ilaria Pesce

Pontifico dal 1990. La mia idea di sport è una maratona di film o di serie TV: amo il cinema drammatico, i gialli e la Disney. Sono una lettrice onnivora ed insaziabile. Ascolto musica di ogni genere ma soffro di Beatlesmania acuta. Mi piacciono gli spoiler. Tento di mettere a frutto la laurea in Lettere. Il mio sex-symbol di riferimento è Alberto Angela.
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