Serie TV

Mindhunter, un viaggio nella pazzia in dieci puntate

Lasciate ogni speranza, voi che iniziate Mindhunter.

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Mindhunter è l’ultima serie Netflix diretta (in parte) e prodotta da David Fincher – già regista di perle come Se7en e Fight Club, per citare solo i miei preferiti – basata sul libro omonimo di John E. Douglas e Mark Olshaker. Nel libro ripercorriamo la vita, privata e lavorativa, dell’uomo che ha letteralmente inventato la professione di profiler criminale per l’FBI insieme al collega Robert Ressler. Nella serie tv i nomi vengono cambiati in Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany) ma lo sviluppo è lo stesso e parte da un’unica, semplice domanda: come si può fronteggiare e prevenire la pazzia se non si sa come funziona essa stessa?

Nel 1977 Ford, un agente speciale che si occupa di negoziare con criminali che tengono ostaggi, iniziando ad insegnare queste tecniche alle nuove reclute, si rende conto di non conoscere effettivamente quello che passa per la testa di certi criminali. Allora è attraversato da un’idea tanto rivoluzionaria quanto pericolosa: per capire la mente di queste persone, e prevenire casi simili, bisogna parlare con quelli che sono già stati catturati. Insieme al collega Tench, agente dell’Unità di Crimini Comportamentali, inizia così un viaggio all’interno della mente sadica dei peggiori serial killer degli anni ’70.

profilerTutto quello che vediamo apparire su schermo, i vari Edmund Kemper, Jerry Brudos o Dennis Rader, sono repliche esatte delle reali conversazioni di Douglas e Ressler con questi brutali assassini. E’ Bill Tench che un giorno decide di chiamarli “serial killers“, assassini seriali, ponendo insieme alle intuizioni di Ford/Douglas i primi tasselli di quella che diventerà la professione di profiler criminale. Grazie al loro lavoro, su oltre trenta casi più o meno celebri, vennero davvero chiariti, e successivamente prevenuti, crimini violenti.

Mindhunter comincia con un primo episodio forse un po’ lento, in cui seguiamo tutto il treno di pensieri che porteranno Ford all’idea di intervistare i peggiori criminali del paese, ma nonostante questo sa lasciare nello spettatore una curiosità macabra per quello che il protagonista vuole svelare. E negli episodi successivi veniamo – brutalmente – soddisfatti, scoprendo cosa hanno fatto questi esseri…che non possiamo definire umani.

C’è sempre, nella regia di Fincher, una fermezza e una freddezza che apprezzo tantissimo: le sue riprese sono pulite, ordinate, fisse, come se volesse tenere salda l’attenzione dello spettatore eliminando tutti i fattori di disturbo che derivano dalle riprese a mano movimentate. Questa fissità è sconvolgente in Mindhunter poiché ci costringe a guardare negli occhi gli interpreti (eccezionali) dei killer intervistati. Non vediamo cadaveri, corpi mutilati o sangue, si percepiscono solo nelle foto, asettiche come sono davvero le foto di una scena del crimine, ma ne sentiamo parlare, costantemente. E’ incredibile, in senso negativo, quello che si sente nelle interviste dei due agenti speciali, tanto più quando capiamo che sono, parola per parola, interviste effettuate davvero. E’ un orrore freddo, gelido, che ci scivola lungo la schiena e che riesce a sconvolgere più di uno zombie qualsiasi del piccolo schermo.

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Nel corso della prima stagione (non temente che è già stata ordinata la seconda) aumentano le idee eccellenti dei profiler e allo stesso tempo cresce il carico che i due, tre contando l’arrivo della psicologa Wendy Carr (Anna Torv) nel team, devono portarsi sulle spalle. Come ogni serie tv che si rispetti, infatti, anche Mindhunter ci mostra un po’ della vita privata dei protagonisti oltre a quella lavorativa, per allargare la nostra prospettiva. E alle ultime puntate siamo anche noi, con loro, sull’orlo di un baratro psicologico ed emotivo, combattuti tra la necessità morale di comprendere per aiutare, la curiosità scientifica che orienta tutte le nuove scoperte e la volontà di  mantenere una vita personale sana, non influenzata da quello che i tre sentono tutti i giorni. Un esempio di questa battaglia interiore è la scena di intimità tra Ford e la sua ragazza, nella quale lui “si blocca” alla vista delle scarpe col tacco di lei, stesso elemento che invece poco tempo prima aveva scatenato l’eccitamento perverso di uno dei criminali intervistati. E’ facile realizzare come il prezzo di questo lavoro, per Ford, sarà altissimo, ancora più che per i suoi colleghi.

profilerFincher è un maestro quando si tratta di accompagnarci all’inseguimento delle devianze, per usare un termine da profiler. I dieci episodi si divorano letteralmente in pochi giorni (grazie Netflix), scorrendoli uno dopo l’altro mossi dalla stessa sete dei due mindhunters. Non tutti gli episodi sono eccelsi, ma non ce n’è uno che non ci tenga incollati allo schermo del computer e in particolare gli ultimi due/tre sono da brividi freddi.

Sembra, sentendo parlare dell’ennesima serie sui profiler criminali, di doversi trovare di fronte ad un prodotto stilizzato e del quale è già stato detto tutto. Invece Mindhunter ci regala una prospettiva completamente diversa. La serie interessa lo spettatore (come potrebbe fare un buon libro) più che avvincerlo alla storia con cliffhangers o colpi di scena: è uno studio scientifico che colpisce per la fortissima caratterizzazione di tutti i suoi protagonisti, oltre che per l’infinita cura e attenzione ad ogni dettaglio stilistico. Tuttavia non manca il modo per tenere alta la suspense inserendo in quasi ogni puntata un caso originale in cui i due si imbattono e in cui si ritrovano ad aiutare con le loro conoscenze. E’ un modo furbo per continuare a parlare dello studio sui criminali e, allo stesso tempo, di portarlo sul campo, senza mai rischiare di annoiare lo spettatore.

Non è un thriller a tutti gli effetti, perché mancano la caccia e il colpo di scena; è un horror, ma con orrori già perpetrati e ormai sulla carta; allo stesso tempo si aggira nel campo del crime ma è più una riflessione sul genere che una serie tv sul crimine. Nel complesso Mindhunter è una serie nuova in senso letterale, capace di parlare in maniera diversa di qualcosa che già conosciamo. Il merito è sicuramente di uno dei migliori registi della nostra generazione, ma è impossibile non chinare il capo davanti al coraggio di quei due uomini comuni che sono stati capaci di fronteggiare simili vuoti di umanità.

Giulia Cipollina

28 anni, laureata, lavoro in un negozio di ottica e fotografia. Come se già non bastasse essere nerd: leggo tanto, ascolto un sacco di musica e guardo ancora più film - ma almeno gli occhiali per guardare da vicino posso farmeli gratis.
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