
Mine – Tra thriller bellico e dramma intimista
Mine, esordio nel lungometraggio per Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, è la riuscita metafora di un profondo viaggio introspettivo
Non è un fenomeno casuale il fatto che in questo 2016 il panorama cinematografico italiano abbia potuto godere di una ventata d’aria fresca. Non si tratta di un’annata miracolata, che finalmente riesce a proporre film italiani ambiziosi tanto in ambito artistico quanto lo sono dal punto di vista puramente commerciale. Sta avvenendo un cambio generazionale e i due registi di Mine, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, sono gli ultimi nomi da iscrivere nella (per ora) corta lista di nuovi autori che, questo cambiamento, lo stanno rendendo possibile.
È ancora troppo presto per parlare di un nuovo movimento cinematografico, ma è innegabile quanto tutti questi autori nascenti siano attratti da un modo di fare cinema tutto americano. Un modo che non ci è mai appartenuto, almeno fino ad oggi. Guaglione e Resinaro lavorano insieme da oltre dieci anni, tra corti e mediometraggi, e se c’è un filo conduttore a tutta la loro opera, è sicuramente il fatto di non voler rinunciare alla spettacolarità della messinscena, senza che quest’ultima vada a condizionare il messaggio da veicolare. Mine, oltre a segnare il loro esordio nel lungo, è in questo senso un glorioso punto d’arrivo. E da cui ripartire, ovviamente.
L’incipit è tanto semplice quanto geniale: un soldato rimane bloccato nel deserto da una mina e dai suoi demoni interiori. I due registi/sceneggiatori giocano molto sul contrasto tra la vastità dell’ambientazione e l’impossibilità del protagonista di fare anche un solo passo. Grazie ad un sapiente uso dei silenzi, la tensione è palpabile e in alcuni momenti si arriva addirittura a provare un’insana sensazione claustrofobica, il che è quasi un paradosso vista la location. Fabio&Fabio (così firmano i loro lavori) si concentrano molto sui particolari visivi e sonori: l’ovvia mina che viene innescata, la sabbia a mezz’aria, il sangue e il sudore. È un film “sporco”, anche nelle inquadrature spesso instabili o nei veloci cambi di fuoco, ma il tutto non dà solo un gradevole effetto d’immersione, ma contribuisce a rendere dinamica la regia e a mantenere alto il ritmo. Tutte cose fondamentali per un film in cui l’azione è essenzialmente immobile.
Il film si presenta come thriller bellico per poi rivelarsi dramma introspettivo. Un bel banco di prova per il protagonista Armie Hammer, che sul piano attoriale è chiamato a reggere sulle proprie spalle l’intera opera. Prova superata: Hammer è sicuramente una bella sorpresa, essendo riuscito a tratteggiare la lenta perdita delle speranze, e la conseguente discesa nella follia, del suo personaggio. Aiutato comunque da Guaglione e Resinaro, bravi nel dosare e inserire al momento giusto flashback che ne caratterizzassero il background.
Posto che a fine visione ci si rende conto che tutto ciò che vediamo assieme al protagonista è aperto ad interpretazione soggettiva, il film si rivela essere una metafora, un inno alla vita: non fermarsi per la paura di ciò che potrebbe esserci dopo, fare il passo avanti. In questo gioco metacinematografico, in cui il film si concede anche una breve parentesi ironica, possiamo vedere riuscito l’intento dei due registi italiani: trovare la giusta amalgama tra spettacolo, in questo caso proprio del genere thriller, e messaggio, forse reso sin troppo esplicito nel finale. Perché, in fin dei conti, il protagonista è da solo sul campo di battaglia e da solo dovrà affrontare i traumi del passato, mine non per forza da disinnescare.
Mine è l’ennesima bella sorpresa di un nuovo cinema italiano, pop e d’autore, che non vuole essere secondo alle produzioni d’oltreoceano. Mine è anche la prova che Guaglione e Resinaro il loro passo l’hanno fatto, difendendo e portando a compimento un’idea di cinema sempre considerata tabù qui da noi.