Film

Mio zio: Jacques Tati, le fontane a forma di pesce e la voglia di libertà

Qualche tempo fa la mia estate è stata allietata da Parigi a piedi nudi, adorabile film che sembra francese ma i cui genitori sono in realtà l’uno belga e l’altra canadese, e che mi ha riportato alla mente Jacques Tati: pochissime parole, tanto mimo, tantissime gag. Ebbene, a questo punto diviene d’obbligo darsi un tono e parlare del suo capolavoro più famoso, Mio zio, del lontano 1958 e restaurato nel 2016: film che gli è valso il Festival di Cannes, l’Oscar per il miglior film straniero e la preferenza assoluta da parte di uno come David Lynch – e sembra paradossale, ma in effetti certi tempi dilatati e certe situazioni così surreali da risultare sinistramente comiche non si possono non ritrovare in Twin Peaks.

Ma procediamo con ordine: Gérard Arpel è un bambino che vive con i genitori nella zona residenziale e futuristica di una non meglio definita città, di quelle che fanno tornare alla mente lo sconcerto di Nanni Moretti quando finisce nelle periferie bene di Roma; al contrario lo zio materno, che altri non è il celebre Monsieur Hulot/Jacques Tati, sta nella parte più antica e autentica, dove esistono ancora i bar, i mercati rionali e le case su più piani, e appena può si porta la creatura in giro per qualche scampagnata, non sempre troppo lecita. Gérard naturalmente approva, i genitori un po’ meno, meno che mai il padre, perfetto stereotipo del borghese calvo e panciuto, il quale spera di ingabbiare il cognato nella sua azienda, accasarlo e farlo rientrare nei ranghi. Non vi dico come va a finire, ma beh, evviva la libertà, quantomeno al cinema.

Mio zio vi farà venire voglia di licenziarvi, mollare tutto e passare il tempo a irridere l’esercito di gente che ogni mattina si infila giacca e cravatta, si inabissa nel traffico, molla il figlio a una grigissima scuola, approda a una ancor più grigia fabbrica, e infine rientra in una terrificante villetta che, indovinate un po’?, colorata non lo è di certo. Il film è tutto giocato sul contrasto tra come ci vorrebbe la società – rasati, inamidati e ubbidienti -, e come invece bisognerebbe essere: non rivoluzionari, più semplicemente spensierati.

Nel mezzo, scene clownesche esilaranti, che un po’ richiamano i fratelli Marx e un po’ ispireranno Peter Sellers, e la straripante fisicità di Jacques Tati: le scene dei barattoli in cucina e dei tubi in fabbrica sono da manuale. In una casa dove tutto è di plastica, persino i fiori portati dagli ospiti più illustri, per i quali viene attivata una discutibile fontana a forma di pesce, mangiarsi una frittella unta e zuccherosa al chiosco in periferia diviene un atto libero e proibito.

Per fortuna che ad allietare Gérard ci sono il già citato Monsieur Hulot, quasi un eroe moderno, e il bassotto di casa: pure lui imbrigliato in un cappottino scozzese, ma che appena può si lancia nelle peggiori scorribande insieme ai suoi amici randagi: sporchi, brutti e cattivi, ma hanno proprio l’aria di divertirsi di più. Ecco, Mio zio ci insegna questo: va bene vestirsi, pettinarsi, andare al lavoro e fare tutto quello che gli altri si aspettano, ma non dimenticate di lanciare un fischio, osservare la gente andare a sbattere contro un lampione e farvi una grassa, grassissima risata. Almeno ogni tanto.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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