
Miracolo a Le Havre: commedia e poesia tra i container del porto
Se avete voglia di un bel film, ma allo stesso tempo non siete in vena di qualcosa di eccessivamente impegnato o strappalacrime, allora non lasciatevi ingannare dal titolo o dalla trama: nonostante le apparenze, Miracolo a Le Havre è un film leggero, delicato e divertentissimo. E del resto, cosa aspettarsi da un regista finlandese quando approda nella douce France?

Non lasciatevi ingannare dalla trama, dicevamo, né dalla traduzione italiana del titolo, che nel dubbio è stata resa in un modo che pare un barile di melassa: Miracolo a Le Havre parla di un dramma ormai diventato cronaca comune, ma lo fa con un tono a metà tra la commedia, il fiabesco e la parodia dei noir Anni Quaranta. Basti pensare che il film, girato da Aki Karusimäki nel 2011, si apre con il protagonista, il lustrascarpe Marcel, che assiste a un omicidio alla stazione dei treni: poco male, si dice serafico, ci si sposta in centro. Carrellate di quartieri belli e soprattutto meno belli di Le Havre, interni della modesta casetta che il nostro divide con l’adorabile moglie Arletty e l’altrettanto adorabile cagnolina Laika, spezzati della vita di quell’isolato che sembra un mondo a sé, fino ad arrivare al porto, dove da un container sbuca un gruppo di immigrati africani. Il più giovane, Idrissa, riesce a fuggire, e indovinate dove finisce a rintanarsi?

Marcel, che nel frattempo si trova a dover fronteggiare la malattia e il successivo ricovero della moglie, lo aiuterà a raggiungere l’Inghilterra e la madre: il tutto senza pietismi, scene didascaliche, sviolinate retoriche. L’uomo, comune come tanti, tutti nella sua cerchia, aiuta quel ragazzino, altrettanto comune, non perché sia giusto o nobile, e non lo fa dopo attente riflessioni: agisce subito, e semplicemente per umanità, come se accogliere un estraneo bisognoso nella propria casa fosse un riflesso condizionato.

Marcel non è un eroe, anche se si prodiga per la salvezza del piccolo Idrissa; né tantomeno lo è Idrissa, un fuggitivo mosso da un bisogno ancestrale e ben lontano dal voler migliorare il mondo; non lo è neppure Arletty, una malata come tante, che non ha nessuna intenzione di eleggersi a martire o di essere presa a modello. E non sono eroi nemmeno tutti i personaggi, minori eppure fondamentali, che fanno da sfondo a Miracolo a Le Havre: i bottegai di quartiere compiacenti, gli avventori del bar avvinazzati ma in qualche modo responsabili, il commissario di polizia ligio al dovere, ma non alle regole idiote. Sono tutti persone comuni, di quelle che si incrociano per strada senza neppure notarle, e che inanellando una serie di azioni comuni quasi senza accorgersene riescono a fare una cosa buona, senza clamore e senza nessun premio finale.

I visi delle persone che affollano questo film sono perfetti: quello segnato e spigoloso del protagonista André Wilms, quello anziano eppure perennemente stupito della compagna Kati Outinen, quello precocemente adulto di Blondin Miguel. Le inquadrature rendono la grigia Le Havre un mondo quasi fiabesco; i quartieri poveri, fatti di lamiere e staccionate, diventano improvvisamente affascinanti, come un ciliegio che fiorisce in inverno. Colori primari, quasi da fumetto, primi piani ravvicinati, e una patina ovattata a coprire il tutto; Miracolo a Le Havre è un film spassoso, commovente, un po’ anacronistico. Un film umano.