Film

Mommy: quando un film ti rimescola l’anima

Ma come si fa a parlare di Mommy senza sentirsi rimbombare nelle orecchie Wonderwall degli Oasis? Dai, è impossibile, lo capite anche voi. Cioè, lo capite voi che avete già visto il film, o voi che, in qualche maniera, vi siete imbattuti in quella scena. Una scena dove bisogna soltanto odiare questo stronzetto che ha ancora il latte alla bocca e fa film così, in grado di toccare corde del tuo animo che forse non sapevi nemmeno di avere.

Sono sarcastico Xavier, non prendertela, in realtà Mommy mi ha sconvolto le emozioni. E penso continuerà a farlo per tutte le altre volte che avrò il piacere di rivederlo. Quindi cercherò di parlarne, anzi, cercherò di non parlarne, almeno razionalmente (a parte gli aspetti tecnici). Perché per questo film bisogna soltanto farsi coinvolgere, allargando le braccia e respirando il Cinema.

Potrebbero esserci spoilerz, io ve lo dico, quindi se proprio non volete rischiare fermatevi qui. Vi voglio bene comunque. Forse.

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La storia è vecchia come il mondo: un figlio ribelle e una madre che non sa come controllarlo. A parte il tocco “fantascientifico” della legge canadese che consente il ricovero coatto per minori con problemi di questo tipo. E fin qui potrebbe essere un film come tanti. Peccato che Dolan non sia un regista come tanti. Ma proprio per niente.

Quindi decide di soffocarci gli occhi, di rinchiuderci come madre e figlio, ingabbiati nella loro stessa vita, incapaci di rompere quel circolo vizioso di errori quotidiani, di piccoli grandi drammi che li tengono incatenati a loro stessi.

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E cosa si inventa il buon Xavier per fare tutto questo? Mantiene un’inquadratura claustrofobica, in rapporto 1:1, come un quadrato che schiaccia pensieri, parole, emozioni e la vita stessa di Diane (Anne Dorval) e suo figlio Steve (Antoine Olivier Pilon). Perché nell’inquadratura (appunto), c’è spazio solo per uno di loro, a sottolinearne l’incapacità, soprattutto di Steve, di liberarsi dal proprio ego, di maturare andando oltre sé stessi. Quando vediamo più personaggi assieme li sentiamo intrappolati, e noi con loro, chiedendogli implicitamente di smettere di ripetere gli stessi errori, di provare a migliorare e migliorarsi, perché noi non possiamo restare schiacciati per colpa loro.

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Il primo barlume di speranza è rappresentato dalla vicina di casa Kyla (Suzanne Clément), insegnante in anno sabbatico per curare la sua balbuzie. Kyla acconsente ad aiutare Steve nello studio casalingo, ma in realtà la sua presenza allarga il rapporto madre e figlio, creando un triangolo che passa bruscamente dalla gioia alla morbosità, dalla tensione sessuale ai momenti di felicità quotidiana.

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Steve sconvolge la vita di tutti, oppure sottolinea il fatto che fosse già sconvolta di base. Diane non si rende conto della vacua tristezza della sua esistenza, Kyla non vuole accettarla. Steve invece, uragano come la madre, spazza via ogni certezza, scardina ogni possibile cliché del rapporto madre-figlio, estremizzandolo e ribaltandolo con pennellate grottesche.

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La domanda allora è: come ci si può immedesimare nello Steve di Mommy? Forse non si può, e nemmeno si deve. (Cioè, è da prendere a calci in culo da qui fino a Honolulu. E se vivete a Honolulu allora immaginatevi un posto lontano). È Diane quella a cui ci sentiamo più vicini, è lei quella che lotta (seppur con tutti i suoi difetti) per dare un futuro migliore al figlio.

Ci riesce?

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Qui Dolan risponde con la scena. Quella che potrei rivedere all’infinito senza smettere di emozionarmi. Utilizzando una canzone sdoganata e spacciata ovunque quasi ai livelli di Imagine e The Final Countdown, ma dandole vita nuova, dandole un senso in più che nessuno avrebbe potuto immaginare. Il gesto di Steve è emblematico, ci fa respirare con le sue mani, accendendo un brivido elettrico che percorre tutta la nostra spina dorsale. Ogni. Maledetta. Volta. Mannaggia a te Dolan.

Poi però si ritorna al buio, ritornano le pareti che ci comprimono la vita. Perché spesso e volentieri è così che funziona: ci illudiamo che tutto vada bene, quasi arriviamo a crederci, ma poi la vita ci ricorda quanto è semplice accarezzare l’asfalto con la faccia.

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Ma Diane non smette di illudersi, non smette di sperare. Sa che c’è qualcosa di meglio, sa che Steve può raggiungerlo. E qui Dolan firma un’altra scena di Mommy che ti rimescola l’anima. Il suo faux ending è un crescendo di bellissima ansia, di glaciale felicità. Però alla fine l’immaginazione non basta, resta lì, nel suo mondo perfetto che non ha nulla a che fare con la vita vera. Solo Diane sembra accorgersi che esiste questa possibilità, questa lieve fenditura nel tempo dove vorrebbe accompagnare Steve.

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Ma Steve non vuole essere accompagnato, non ci riesce. E noi lo sappiamo, lo sapevamo fin dall’inizio cosa sarebbe successo. Dolan non mette nulla a caso, non inserisce quell’elemento di rottura di genere solo per un vezzo artistico. C’è, diavolo se c’è. La bravura sta nel farcelo dimenticare, anzi, nel lasciarlo di sottofondo, come un remoto sibilo nelle orecchie.

E quindi come risolvere questa opprimente situazione? Con il finale catartico. Un’ultima scena che, come la fusione di una supernova, ci libera tutti.

Edoardo Ferrarese

Folgorato sul Viale del Tramonto da Charles Foster Kane. Bene, ora che vi ho fatto vedere quanto ne so di cinema e vi starò già sulle balle, passiamo alle cagate: classe 1992, fagocito libri da quando sono nato. Con i film il feeling è più recente, ma non posso farne a meno, un po' come con la birra. Scrivere è l'unica cosa che so e amo fare. (Beh, poteva andare peggio. Poteva piovere).
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