
Monolith, donne e motori, pargoli e malumori
La Monolith è un’automobile super corazzata che se avesse le fattezze umane somiglierebbe tanto a Genny Savastano. Ci puoi sparare addosso, prenderla a cazzotti, tentare di scassinarla, romperla, manometterla, ma nulla: è talmente blindata che non te la apre e frega nessuno. La Monolith ha un super cervello artificiale chiamato Lilith, in grado di misurare (per la gioia delle signore) il peso preciso di qualunque posteriore poggi sui suoi comodi sedili. Con i suoi venticinque sensori sa inoltre percepire ogni cambiamento di temperatura e se va a fuoco qualcosa si mette in allarme, anche se ad accendersi è solo una sigaretta. Seicento cavalli per quattro ruote motrici. Potente, super sicura, un comfort assoluto. Se però resti chiusa fuori, ti attacchi. E se dentro ci resta bloccato il tuo pargolo che non ha ancora imparato ad aprire un finestrino, ti attacchi a morsi.
Ecco, su questo paradosso di ingegneria e sicurezza nasce il soggetto del primo lungometraggio prodotto dalla Bonelli.
Di film su macchine con intelligenze artificiali che migliorerebbero la tua vita quanto lo spigolo di una porta sull’alluce, se ne son visti molti. Si possono citare Christine – La macchina infernale (film del 1983, diretto da Carpenter e tratto dal romanzo omonimo di Stephen King), o la Supercar della televisione anni ’80 (Knight Rider). E se parliamo di auto che sgommano e si rincorrono nel deserto, bisogna citare anche Duel (1971), primo film di un giovanissimo ventiquattrenne di nome Steven Spielberg. Inquietudine e orrore da un lato, avventura e azione dall’altro. Con Monolith però, la scommessa è diversa, e a scommettere è una produzione composta da Sky Italia, Lock & Valentine e Sergio Bonelli Editore. Diversa perché, al di là dei presupposti che vedono il film inserirsi nel genere thriller (con buona dose drammatica e un velo di fantascienza), la storia sembra un po’ ridursi ai diversi tentativi di scasso nei confronti di una macchina da parte di una donna completamente sola e in pieno deserto (e dopo decisioni scellerate per cui le mamme una volta l’avrebbero già presa a sberle in faccia).
La scommessa sul soggetto
Monolith nasce da un soggetto abbastanza originale (meno originale purtroppo in riferimento ai tragici e diffusi casi di cronaca di bambini dimenticati sui sedili posteriori) firmato da Roberto Recchioni che con Mauro Uzzeo scrive anche la sceneggiatura dell’omonimo fumetto, capolavoro visivo in due volumi edito dalla Bonelli. Per scelte di produzione, il fumetto e il film sono però due prodotti distinti, il film non è un adattamento del fumetto così come il fumetto non è una riduzione del film.
La scommessa sul genere
Monolith è un lavoro nato in Italia e girato negli Stati Uniti, in lingua inglese. Tanto di cappello al regista Ivan Silvestrini che ha affiancato Uzzeo anche nella scrittura. Non è facile misurarsi né con le produzioni americane di un certo livello, né con quelle recenti girate a casa nostra che hanno dimostrato che con il genere e con le produzioni atipiche sappiamo giocare anche noi (da ricordare i successi come Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Smetto quando voglio). Monolith, tuttavia, nonostante i buoni presupposti e le valide idee, è proprio col genere che non riesce forse a confrontarsi del tutto: c’è poca tensione per un thriller, e un’emotività un po’ forzata, poco approfondita, troppo pulita, meno inquieta rispetto al fumetto, probabilmente anche per la performance della protagonista (Katrina Bowden), un po’ televisiva per la portata cinematografica dei punti di partenza.
Quale comfort?
Monolith nasce da un paradosso: la tecnologia aiuta l’uomo, lo tiene al sicuro, ma non lo salva dalla sua stessa stupidità. La Monolith ha evolutissimi sensori per la temperatura? Sente il tuo peso? E perché diavolo non apre i finestrini visto che i gradi aumentano e il peso percepito di un “piccolo umano” rende palese che un bambino è intrappolato sui sedili posteriori? Semplice: perché quei sensori sono stati spenti dal cervello umano.
Il film ci ripropone sì il conflitto uomo/macchina ma da una prospettiva che riprende un po’ il filone già introdotto da Black Mirror sulle inquietanti conseguenze di una tecnologia invadente, che va oltre, e fa funzionare poco la testa. Così, il comfort che questa tecnologia promette si traduce in quella stupidità di chi in effetti si mette comodo a guardare. La macchina ha dei difetti? Il tuo cellulare non funziona? Si blocca? Beh, ormai, decide lui. La tecnologia di una volta la si apriva e si smontava, chi la possedeva era quasi sempre in grado di riprogrammarla. Oggi chi lo apre più uno smartphone? Al massimo si apre il portafogli e se ne compra uno nuovo.
Su questa passività dell’utente medio si basa il rapporto tra l’uomo e la macchina. Interessante sì, ma non focalizzato fino in fondo, come non a fuoco è la dimensione umana che al contrario, nel fumetto, fa della stessa Monolith un monolite che riconsegna alla protagonista una più consapevole identità, messa in rilievo dall’estetica e da digressioni narrative (e stilistiche) che nel film sembrano mancare. C’è poca empatia, qualcosa non si mette del tutto in moto. Più interessante è invece la fotografia che riprende, soprattutto nelle scene notturne, le scelte cromatiche del fumetto (firmato da Lorenzo Ceccotti, non a caso anche production designer del film).
E se magari…
E se alla fine questa storia non mostrasse solo una donna che vuole sbloccare una macchina, in una sorta di antagonismo proverbiale esclusivo tra donne e motori? E se invece quella donna, che è soprattutto madre (quella che le mamme di una volta avrebbero preso a sberle) fosse intrappolata anche lei in qualche malumore blindato inconfessabile? E se questo scherzo ipertecnologico non fosse successo per caso?
È su questa domanda che chiudo, su questa tensione, che farebbe di un thriller dalla carrozzeria pesante, un film magari più intimistico e perché no, anche un pelino più profondo e contaminato. Forse.