
Moonlight – Gli uomini neri sembrano blu
Moonlight. Al chiaro di luna, dice lo spacciatore Juan (interpretato da un bravissimo Mahershala Ali), gli uomini neri sembrano blu. Non si può non partire dalla scelta del titolo per parlare del film di Barry Jenkins, che racconta la storia di Chiron, diverso tra i diversi, cresciuto in un quartiere degradato di Miami.
Per Yves Klein “il blu è l’invisibile che diventa visibile”. A sua volta, il blu è associato ad un senso di tristezza dalla musica afro-americana (blues). Moonlight svela, rende visibile il senso di disagio con cui il protagonista è costretto a convivere. Piccolo di statura in un sistema sociale dove il maschio deve continuamente dimostrare la propria virilità, anima troppo sensibile in un branco di “tosti”, nell’ingenuità tipica della fanciullezza Chiron chiede senza problemi allo spacciatore Juan, figura paterna sostitutiva di un padre probabilmente mai conosciuto, se ci sia qualcosa di sbagliato nell’essere chiamato “frocio”. Il quartiere di Liberty City è un mondo a sé, popolato esclusivamente da afro-americani, “diversi” confinati nell’unica realtà che la cinepresa cattura, e il simbolico chiarore della luna si riflette sul corpo nero di Chiron, che si trasforma lungo i tre atti che compongono la narrazione: infanzia, adolescenza ed età adulta.
Al chiaro di luna, l’uomo nero può essere sé stesso. È al chiaro di luna che il protagonista può momentaneamente togliere la maschera, una virilità ostentata che diventa corazza necessaria all’interno di una realtà che non ti permette di essere piccolo, omossessuale, diverso. Moonlight è questo: il racconto di un’interiorità travagliata e in continuo contrasto con le dure convenzioni sociali. In un’accezione vagamente pirandelliana, l’adattamento è anche l’unica possibilità di sopravvivenza.
Moonlight è un film riuscito in tutti i suoi aspetti, che rifiuta i soliti cliché del ghetto movie e sorprende per l’intensità delle interpretazioni, tra cui spiccano il già citato Mahershala Ali e la madre tossicodipendente Naomie Harris, ma soprattutto per la delicatezza e la sensibilità con la quale Barry Jenkins è riuscito a tratteggiare tanto la figura del protagonista in tre momenti diversi della sua vita, quanto le figure di contorno che lo influenzeranno irrimediabilmente, nel bene e nel male. La regia è di chiara influenza europea, a tratti sperimentale, con la macchina da presa sempre in movimento, concentrata sulle reazione nei volti attoriali, o con degli sfocati atti ad esplicitare il disorientamento del protagonista, giovane e ancora incapace di comprendere le leggi non scritte che regolano la vita.
Toccante, spiazzante e mefistofelicamente affascinante, Moonlight porta alla luce (“l’invisibile che diventa visibile”) il degrado di una parte di società spesso ignorata, diversa, ma lo fa con tatto e grande consapevolezza: se siamo tutti il risultato del nostro mondo personale, la condanna all’individuo giustamente non deve interessare al regista. Ma in un’opera che non sembra voler dare speranza in un futuro migliore, un ragazzo riesce a togliersi dalla strada, aprire una piccola attività ristorativa e, pur sopravvivendo a malapena, essere felice. Moonlight è un film sulla forza di decidere da soli la propria vita e sul non permettere alle circostanze, persone o ambiente che siano, di farlo al posto nostro.
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